Del libro di Tolstoj datato 1877 tutti sanno più o meno qualcosa. C'è chi lo ha letto a scuola, chi - come me - per diletto e chi giunto a metà può averlo odiato per quelle falcidiate che Konstantin Dimitric Levin infligge e che sembrano non finire mai come tutta la campagna russa.
Ma è un romanzo che va letto. Assolutamente. E anche riletto, se è possibile. Perché poche altre volte amore e morte hanno bruciato con la stessa intensità, avvinghiandosi perdutamente.
Quando Anna Karenina, madre e moglie rispettabile di altrettanto rispettabilissimo ministro, incontra il conte Vronskij il suo percorso è segnato.
Accade su un treno. Un treno fermo alla stazione di Mosca. Un treno sotto il quale si è appena gettato un uomo disperato. Amore e morte già cominciano a mescolarsi.
Vronskij fa di tutto per averla. Anna gli sfugge ma compiaciuta.
Da quel momento inizia un effetto domino che sconvolge le loro ma anche le vite di tutti quelli che stanno loro d'attorno.
Kitty, cognata della Karenina, innamorata persa pure lei di Vronskij si deve rassegnare.
Levin, il suo pretendente, può così farsi avanti e convincerla a sposarlo salvandola da un destino sicuramente amaro che invece tocca alla Karenina.
La Karenina affronta lo scandalo, ma oltre a se stessa ci trascina il marito e la famiglia e rischia di perdere la custodia del figlio Serioja.
L'alta società di Pietroburgo la rigetta. L'amore ha infranto le regole del gioco. La verità delle emozioni ha sollevato il sipario dell'ipocrisia fino a minare il buon costume e le convenzioni.
Anna Karenina di Joe Wright è l'ultima trasposizione di tutto questo al cinema.
Strepitosa trasposizione, direi.
E' una pantomima. Ma non la solita pantomima. Il film ricostruisce tutta la vicenda in una sorta di musical russo con una formula teatrale. Le scenografie cambiano in tempo reale, le esterne si contano sulle dita di una mano e lo stile da operetta dà l'impressione che tutto si svolga su di un palco allestito da un geniale coreografo.
Le scene si susseguono senza prendere fiato tanto che gli intervalli spazio-temporali si azzerano e tutto scorre come un nastro, in una dimensione orizzontale.
Il trucco sta nel capire quando Anna Karenina va a teatro e quando invece a teatro ci siamo noi.
E forse non è dato sapere per chi si alza di volta in volta il sipario perché noi, come lei, siamo parte di una pièce che ci fa partecipanti emotivi, oltreché semplici spettatori.
Il cast è eccellente: Keira Knightley (Karenina) è volitiva, un po' troppo per essere quella Anna che abbiamo imparato ad amare con tutta la sua fragilità di donna sola contro il mondo. Jude Law (il marito Karenin) riesce ad essere odioso quanto basta anche se quegli occhiali alla Trotsky non riescono a celare il fascino del suo inconfondibile sguardo. Aaron Taylor-Johnson (l'amante Vronskij) è attraente quanto serve per solleticare i pensieri più focosi; e "solleticare", per quel suo paio di baffi, è sicuramente l'espressione adatta. Kelly McDonald (la cognata Dolly) è perfetta per la parte della donna slavata e tradita. Era dai tempi di Gosford Park che lei ed Emily Watson non si ritrovavano sul set. A sorpresa, la Lady Mary di Downton Abbey (Michelle Dockery) conserva i titoli nobiliari e diventa qui La principessa Myagkaya.
E poi ci sono un sacco di attori che vengono direttamente dalle scuderie di Poirot e di Miss Marple avendo partecipato tutti a qualche puntata delle serie della regina del giallo, tanto che ti chiedi se il loro agente non sia lo stesso.
E' un Tolstoj riletto con un binocolo da loggione. E' ovviamente una Russia vista dalle colline di Hollywood. C'è un po' di prosopopea americana in tutta quella sontuosità cirillica che deve riprodurre l'odore di sovietico, dai pesanti broccati all'eccellenza dei costumi. Ma in fondo siamo in una rappresentazione. O, se si preferisce, in una finzione. E ci viene detto a chiare lettere sin dall'inizio.