1965 è la nascita, avvenuta alle falde di un mito chiamato Syd, Syd Barrett. Syd è stato un ragazzo inglese degli anni sessanta, precoce, geniale, fragile, poliedrico e, dicono, pazzo. Si specchiò nell’altra faccia del successo, la persecuzione, e ne fu trasformato in pietra. Pietra miliare.
Syd Barrett
Non fu molto complesso il viaggio disperato e maledetto di Syd: l’appassionata attitudine alla musica, alla chitarra, al blues, poi, all’improvviso, l’inaspettato, quando fu reclutato da Roger Waters, suo amico di infanzia a Cambridge, per incidere sull’era delle decisioni, quelle che si prendono solo a venti anni fondando un gruppo che all’origine denominò “The Pink Floyd Sound”, venne di seguito il senso di appartenenza a qualcosa che ogni artista novizio prova: la speranza, condivisa con l’amico Roger e gli altri due componenti della band, Nick Mason e Richard Wright; alla fine, dirompente, arrivò il successo e, di interessante, la legittimazione artistica. “Arnold Layne” è uno dei primi singoli del gruppo, solo di Barrett in realtà, ed è un tuono nella feconda scena “underground” britannica della seconda metà degli anni sessanta. Arnold è un travestito che ruba abiti femminili “stesi ad asciugare” e lo fa nella grigia Inghilterra di quell’epoca, accompagnato da una base musicale ficcante ed ipnotica, compreso l’organo Hammond di Wright, che fa sprizzare fuori dalle radio la libertà intesa come pura espressività, ovvero Sua Maestà “la meta di ogni artista”. E una tale espressività non poteva non trovare censure, appelli moralistici di negazione, era troppo per il pensiero unico: povero pensiero unico distrutto dalla voce improvvisa, che arriva da chissà dove, e per nulla conciliante di Syd. Nell’inciso della canzone, il rito d’iniziazione della band, è suggerito, come un graffio insinuante e sarcastico, un interrogativo per tutti: “Why can’t you see?”. Perché non riuscite a vedere chi siamo e cosa cantiamo, dice Syd, siamo i più rivoluzionari, sono un poeta dalla grandezza immensa e voi non lo vedete. Ma si capirà, caro pazzo diamante Syd, si capirà, vecchio Syd. Syd che ha raggiunto troppo presto il segreto.
Fin dall’inizio i Pink Floyd sono attenti a luci e suono. Per loro l’esibizione sul palco deve essere sceneggiata e fotografata attraverso un uso narrativo delle luci sul palco. E lo stesso vale per il suono. Aiutati dai tecnologici studi di Abbey Road, dove registravano, e da ingegneri specializzati che all’epoca già convertivano in arte un aspetto spesso trascurato: la cura del suono e dei rumori che arricchisce ed orienta la musica del gruppo, un misto unico di chitarre, bassi, batterie (le chiavi del rock) e violini, clavicordi, cani ululanti, pentole, campane, risonanze naturali, come se tutto fosse la colonna sonora di un eterno film.
I Pink Floyd nel breve periodo in cui furono in cinque, dopo il coinvolgimento di David Gimour (seduto in basso)
La storia, però, va avanti. Syd il pazzo diamante si distrugge, dicono, era già schizofrenico, sostengono, era il genio funestato dalla nemesi del dono divino: la follia. Chissà…sta di fatto che, sotto lo sguardo impotente degli altri tre, Syd se ne va per la sua strada. Non è più il talentuoso e poco accademico ragazzo che imparava a suonare la chitarra grazie all’amico David Gilmour da Cambridge, non è più il poeta che scriveva versi dal candore cattivo e fiabesco, regalando al mondo due brani di cristallina originalità “Lucifer Sam” e “The Gnome”, non è più il londinese, figlio del dopoguerra, che esplorava e sperimentava gli accordi di chitarra e l’opzione lisergica della vita. Qualcuno dice che senza LSD non avremmo mai avuto i viaggi straordinari di Syd propedeutici ad una canzone come “Interstellar Overdrive” o le intuizioni, in anticipo di quaranta anni, di “Astronomy Domine”. Ma non si può fare niente contro la corsa di un genio lungo il suo percorso, perché il percorso concesso ai geni è individuale e solitario. Così Roger Waters se ne rende conto e insieme a Nick Mason e Richard Wright prendono la decisione più difficile della loro vita: si liberano del mito fondante. E rischiano di scomparire. Come se i Beatles avessero dovuto rinunciare, a due anni dalla nascita, a John Lennon o i Led Zeppelin a Plant o Page e i Nirvana a Cobain. Chi potrà sostituire Syd, chi avrà la forza di non essere offuscato dalle nuvole dell’ispirazione istintiva di Syd? Il fardello tocca al suo maestro di gioventù, l’amico che gli insegnò il modo di comportarsi con la tecnica al fine di dominarla e surclassarla col suo talento: chi dunque? David Gilmour, è a David che viene imposto questo destino, tuttavia colui che sostituirà il profeta può fare la fine di Giuda o di San Pietro e non si sa cosa sia peggio. So you think you can tell Heaven from Hell.
Gilmour entra nel gruppo e gradualmente prende il posto di Syd, ormai deviato verso terre che nessuno sa, ormai, dicono i medici, andato, a causa del voler vivere attraverso gli acidi. Nessuno, in realtà, sa cosa sia stata la verità di Syd, se abbia rifiutato deliberatamente la carriera o se il suo cervello si fosse rattrappito, si sa solo che se ne è andato per non tornare mai più. Il mito non c’è più e dopo il mito c’è un bivio: resistere o scomparire.
Waters e Gilmour hanno talento però e non vogliono abbandonare. Continuano, sotto l’onta di un passato maledetto e tanto affascinante, con la musica psichedelica e poi con il prog rock, il tanto celebrato progressive rock ossia la faccia europea, classicheggiante e colta del rock che stava cambiando per sempre la musica mondiale. Si alleano all’inizio, ma il comandante è Waters. Waters distillerà negli anni a seguire carisma e testi poetici, per molto tempo ispirati al mito che gli aveva mostrato la strada, il vecchio Syd.
Dicono che i periodi artistici dei Pink Floyd si suddividano in tre: lo psichedelico, il prog rock e l’età matura. Forse i Pink Floyd possono essere descritti come due parti coesistenti e che si compenetrano: la prima, quella di Waters, che mai dimentica Syd, che ne custodisce il ricordo e ne difende la portata immensa dello stimolo artistico, la seconda, quella di Gilmour, che ascrive i Pink Floyd nell’alveo della musica mediata, colta, sperimentale e finissima.
Dopo i pochi anni di Syd dal ‘65 al ‘67, con risibili strascichi nell’album del ‘68 “A Saucerful of Secrets”, i ragazzi e Waters si rendono conto di aver perso “il pifferaio alle porte dell’alba” che alludeva con le parole e le tracce musicali e, allora, coraggiosi, consapevoli di non potersi inventare poeti, si mettono a suonare. E suonano, mettono nei loro dischi immediatamente successivi immensi brani chilometrico-strumentali proprio perché il verbo di Barrett non li aiuta più. Esce “Ummagumma” un album essenzialmente strumentale, deliberatamente strumentale perché le parole di Syd non ci sono più e Waters non se la sente di dissacrare il mito.
La copertina dell'album Atom Heart Mother
Canzoni imponenti, musiche che giocano sullo sfinimento acustico e vocale, la sperimentazione spinta all’eccesso che nell’era che viviamo non sarebbe permessa dal mercato del successo orientato dagli agenti. Arriva poi l’approdo al prog, al rock venato dal classico, dal violoncello, lo spirito europeo che si riaffaccia prepotentemente in “Atom Heart Mother”, l’album con la mucca più famosa ed enigmatica del mondo. Qui Waters prova a scrivere e lo fa vergognandosi al pensiero del confronto. Gilmour continua con le sue accurate melodie e i magistrali saggi di chitarra. I brani strumentali sono sempre più centrali nell’opera pinkfloydiana, poiché i testi non potrebbero reggere il peso del verso barrettiano, ed ecco, di necessita virtù, la straordinaria “Echoes” nell’album del 1971 “Meddle”. Echoes occupa 23 minuti del lato B dell’intera opera, quasi fosse un alibi, seppure ardito, perfetto e complesso, per scappare dalle parole. Ancora si rifugge dai testi, è la musica che deve parlare: quello che avevamo da dire attraverso la poesia lo abbiamo detto con Syd.
Waters è rimasto troppo segnato, vive del mito di Syd e non potrebbe mai permettere che qualcuno, tanto meno Gilmour, l’usurpatore del trono, si cimenti nel ruolo che aveva l’amico. Dopo un album sottovalutato “Obscured by Clouds”, arriva il 1973 ed al mondo e per il mondo viene offerto “The Dark Side Of The Moon”, il manifesto, qualcuno salmodia, di una generazione dedita agli acidi e alla prova dei viaggi psicotropi. Dirà, qualche anno più tardi, Roger Waters, che questo album non è stato fatto per invogliare alla droga sebbene non ci sia niente di male se un ragazzo, a venti anni, ne passi un paio ad ascoltare da sballato qualche disco per imparare a sognare. Con Dark Side Waters finalmente sospende i complessi e scrive. Qui si impastano le sonorità più diverse, anche con il sintetizzatore, e i temi che renderanno i Pink famosi in tutto il mondo. Il senso di morte, l’alienazione, il bisogno e la consapevolezza di vivere in un tempo limitato e, poi, sempre, quasi ad effigie, in controluce c’è Syd, con i temi della pazzia sublimati da uno dei brani meno valutati dell’album “Brain Damage”, brano inchiodato dai suoni di Gilmour con la chitarra. Waters, aiutato dagli altri tre, in particolare dal Gimour che continua il percorso di perfezionamento delle tecniche sonore, decide di liberarsi del suo istinto di difesa e del senso di colpa e lo fa scegliendo una via difficile. Non dimentica o rimuove il mito ma ne prende spunto. Riesce nell’impresa di mitizzare un amico per farsi ispirare. Ed ecco che due anni dopo viene alla luce “Wish you were here”, denso, nella struttura narrativa, di alienazione che occorre ad un genio. Le due struggenti ballate, “Wish you were here” e la monumentale “Shine on you crazy diamond”, rievocano il profeta Syd come se la band fosse uno sciamano. Waters canta, nei testi, di essere sulla stessa barca, di provare le stesse paure del vecchio amico/mentore, sebbene Syd abbia da un pezzo abbandonato il cammino comune. Desidera, Waters, che Syd sia lì con lui, lo desidera ma sa che non potrà avverarsi e allora gli urla “risplendi pazzo diamante”, risplendi anche se non possiamo farlo più insieme. Un’estetica del non ritorno che tutto ammanta, sempre di più, nel fascino maledetto di un passato troppo grande.
Dopo il sigillo di Waters, ormai la dualità con Gilmour è a livelli preoccupanti. Gilmour non ne può più di Waters e Waters non ne può più dell’universo opprimente dell’industria del rock. Si isola, come fece Syd, e se ne va dai Pink Floyd favorendo l’entrata in scena del nuovo leader, il chitarrista Gilmour che ha finalmente, dopo venti anni, l’opportunità di dimostrare chi sia. Sotto Gimour i Pink Floyd producono due album “A momentary lapse of reason” e “The Divison Bell”. Li fa Gilmour – nel frattempo anche Richard Wright è stato messo ai margini – li vuole Gilmour e non mancano negli album citazioni dirette all’alienazione e bordate acide nei confronti di Waters e del suo protagonismo e del suo essere prigioniero dell’eroe e del fantasma di Barrett. Gilmour non incanta con questi due ultimi album, e quasi lo dichiara con il primo del 1987 “A momentary lapse of reason”, un momentaneo vuoto della ragione letteralmente traducendo, ad ammettere che i Pink Floyd, in quell’esatto frangente, hanno il bisogno vitale di una pausa dall’epopea barrettiana delle origini e dai fasti in due decenni scanditi dal Dark Side e dal Muro. “The Division Bell” è un album più maturo, di geometria musicale perfetta, tuttavia siamo ormai nel 1994 e gli anni settanta, Zabriskie Point, il personaggio Pink (compendio del gruppo) e il muro trasposti in film da Alan Parker e Bob Geldolf, sono lontani, lontanissimi.
Come in tutte le storie che si rispettino ognuno prende la sua strada. Waters per la verità è perso senza i Pink mentre David Gilmour entra di diritto nella world music perché il suo suono, la sua ricerca sono all’avanguardia (e lo sono anche oggi). Il tempo scorre inesorabile tra un’intervista e l’altra dove si beccano, si rimbeccano, si rimpallano, dove si evince la rivalità mai sopita, le invidie, la differenza irredimibile tra il Waters politicamente vicino agli ultimi, sarcastico con la Thatcher imperialista all’attacco delle Malvinas, e il Gilmour che predilige l’arte per l’arte, le sonorità come unico metro per giudicare un artista. Nel 1995 Gilmour scioglie il gruppo e quasi trenta anni di storia del rock.
Una foto di Syd Barrett negli ultimi anni della sua vita. La dedica che i Pink Floyd gli tributano al Live 8 congeda per sempre un gruppo e un'intera epoca musicale.
Finiti i tempi delle passioni, dalle ceneri del passato riemerge l’amore per la musica, hanno, così, l’occasione dell’addio perché questa storia, puramente e classicamente rock, fatta di estetica dell’abbandono, di senso di colpa, di disperazione per l’insondabile, di spazi (terribile la definizione di space rock che si dà alla prima produzione dei Pink Floyd), lune, ambiguità, cimiteri dell’anima, alienazione, morte, tempo, memoria, anticonformismo, alla fine presenta la riconciliazione. Lo fanno i due, Gilmour e Waters, al Live 8 per l’Africa del 2005, organizzato da un altro personaggio comparso nella storia della band, Bob Geldolf. Dopo venti anni di mancanze reciproche si riuniscono a Mason e a Wright per cantare “Shine on you crazy Diamond” e per congedarsi con queste parole bellissime e definitive (e accettate da Gilmour) di Roger Waters, a commiato di un’epoca irripetibile : “It’s actually quite emotional, standing up here with these three guys after all these years. Standing to be counted with the rest of you. Anyway, we’re doing this for everyone who’s not here, particularly, of course for Syd”.