Un dito guarda la luna. Peccato per chi guarda il dito.
E' difficile accostarsi a un libro come quello scritto da Anne-Lise Grobéty, Morire in febbraio (Il dito e la luna), così com'è difficile avvicinarsi ai libri dalla prosa lirica, quei libri di piccole dimensioni ma di grande umanità. Non saprei da dove partire perché temo di calpestare una terra già sconvolta da anni di conquiste predatorie, colonizzazioni, guerre fratricide. La difesa sembra l'unica arma a disposizione, la retorica l'ancora di salvezza scontata.
Se provassi a ripulire questa terra, resterebbero probabilmente solo le parole. Niente nomi, niente giudizi (se non quelli dell'autrice), qualche ricordo, livido, impreciso, pallido, fievole come la voce della narratrice che ci accompagna in una storia in cui le cose bisogna saperle chiamare, o non chiamarle affatto. "A volte bisognerebbe sapersi tenere le cose senza un nome, come trovatelli, cose belle come avere caldo e avere freddo e potersi spogliare e potersi coprire, o lasciarle andare, perché si deve, perché si vuole, non perché non si sa come chiamarle".
E' necessaria una nota biografica. Anne-Lise Grobéty (1949) è stata una delle scrittrici svizzere riconosciute a livello internazionale. Pour Mourir en Février ha ottenuto il Premio Georges-Nicole. E' scomparsa il 5 ottobre del 2010 dopo una lunga malattia. All'epoca ero impegnata in un giornale e insegnavo, stavo anche completando un romanzo mai pubblicato perché la scrittura era molto acerba e rivelava un'immaturità tale da non poter essere consegnata ai lettori. In quel periodo, dicevo, ero molto presa da me e la notizia mi era sfuggita. Ne lessi molti mesi dopo su internet quasi per caso. Da allora di tanto in tanto rileggo qualche pagine del suo romanzo.
Aveva diciannove anni quando pubblicò questo romanzo. Immagino lo scalpore, immagino le critiche anche tra i giornalisti, anche tra i letterati. Eppure qualcuno che ha letto a fondo questo libro ha avuto il coraggio di attribuirgli il riconoscimento che merita. Il Premio Georges-Nicole. Ho scritto scalpore e critiche in quanto la storia narra "il rapporto d'amicizia" tra Aude, una diciottenne poco avvezza alle cose della vita, con C. una trentacinquenne divorziata, intelligente, matura, affascinante, capace di gestire le cose della vita. Aude si aggrappa a questa amicizia. Ma è poi corretto chiamarla così? Si può darle un nome?.
Le accuse si insidiano tra loro. Aude è giovane, ha paura, si fa coinvolgere dalle dicerie. "Sono loro" la causa. La colpa è "loro". Un plurale che racchiude genitori, amici, parenti, malelingue, chiunque abbia intralciato l'amicizia tra Aude e C. Dopo resta solo il vuoto. "Ero così vicina a te che vicino agli altri ho freddo". Aude si allontana da C. O forse sarebbe meglio dire che viene allontanata.
"Con Aude abbiamo avuto dei problemi fin da quando era piccola, un carattere insopportabile, insolente" sono le parole della madre allo psicologo "litigava sempre con i bambini del cortile; un'indole ribelle". Si è ribelli quando si sfugge all'ipocrisia, quando ci si sottrae a chi vuole spezzarci le ali, quando si rifugge dalle gabbie dorate. Quando si dice no, perché è così che deve essere. Allora si diventa ribelli, strani, e le frasi ci scivolano addosso graffiandoci: "non la capisco, non l'ho cresciuta così".
Quanto è attuale il romanzo di Anne-Lise Grobèrty, quanto avrebbero da imparare molti genitori. Le loro sciocche credenze popolari, i loro rimedi subalterni. Mentre tutt'attorno è freddo.