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Anniversario morte Don Peppe Diana “Per amore del mio popolo non tacerò”, quella Chiesa che combatte davvero la Mafia

Creato il 20 marzo 2014 da Giornalesiracusa

downloadC’è una parte della Chiesa che non ha nulla a che spartire con quella che, invece, benedice le feste gestite dalla mafia, asserve la religione all’ignoranza, frequenta i corrotti e i collusi e arriva perfino a negare l’esistenza della mafia stessa.

C’è una parte della Chiesa fatta di persone che incarnano la loro missione sacerdotale e, per amore, mettono a servizio della testimonianza la propria vita.

Il 19 marzo del 1994, alle 7.20 del mattino, moriva per mano camorrista Don Peppe Diana, il prete appena trentaseienne di Casal di Principe che ha dedicato la sua vita all’impegno con i giovani, i disabili e gli immigrati soprattutto per contrastare ogni forma di illegalità.

Viene assassinato nella sacrestia della chiesa di San Nicola di Bari, a Casal di Principe, mentre si accingeva a celebrare una messa. Cinque colpi di pistola: due alla testa, uno al volto, uno alla mano e uno al collo. Muore all’istante, ma lascia una preziosa eredità che, ancora oggi dopo vent’anni dalla sua morte, smuove le coscienze.

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La sua cura non si limitava solo a qualche buona omelia generica sui temi della criminalità organizzata, ma si traduceva subito in azioni, in esempi, in testemonianze, in responsabilità nel fare nomi, cognomi e denunce. Il suo uso delle parole e le sue azioni civiche quotidiane con le quali si faceva ‘segno di contraddizione’ e con le quali tentava di educare, soprattutto i giovani, a una cultura che facesse rifiutare loro ogni connivenza e convivenza con il sistema di potere della camorra, gli costò la vita. “Per amore del mio popolo non tacerò” è lo scritto più noto di don Peppe Diana, un vero e proprio manifesto dell’impegno contro il sistema criminale, una lettera distribuita in tutte le chiese della zona aversana nel Natale del 1991.

Padre Pino Puglisi viene ucciso il giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno, alle 20.45 del 15 settembre 1993.

Era parroco della chiesa di San Gaetano a Brancaccio, un quartiere a sovranità mafiosa in cui la sua opera pastorale, evangelica e sociale era rivoluzionaria e sovversiva, nonostante lui la ritenesse del tutto normale. Era un uomo libero e un prete di trincea che non cedeva né ai compromessi, né alle lusinghe, né alle intimidazioni. Non imponeva modelli educativi, ma operava instancabilmente con salda e tenace determinazione ‘oltre l’ombra del campinile della sua parrocchia’ – come dice il suo viceparroco don Gregorio Porcaro – per restituire alla gente del suo territorio la libertà, la dignità e la consapevolezza di cui quella gente era stata privata a causa delle regole dettate esclusivamente dal potere mafioso.

Quanto doveva essere pericoloso l’operato di questo parroco per l’egemonia mafiosa, se la sua uccisione fu programmata nel periodo della strategia stragista?

Durante l’udienza a Roma per il processo sulla trattativa Stato-mafia, il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza ha raccontato al pm Antonino Di Matteo il movente dell’omicidio: don Pino si era messo in testa di fare a modo suo, con le sue iniziative voleva sottrarre i ragazzi del quartiere alle prospettive offerte da Cosa nostra, mettendo a loro disposizione delle possibilità di realtà differente – aveva istituito il centro di accoglienza ‘Padre Nostro’ che offriva assistenza ai bisognosi, e questa era una prerogativa che la mafia non vuole spartire con nessun altro.

Don Pino Puglisi dava fastidio perché metteva in pratica la sua missione ostinatamente per concedere alle persone del suo quartiere una alternativa alla sottomissione al potere mafioso.

Doveva essere ucciso.

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Partito l’ordine di morte da parte dei fratelli Graviano, i ‘soldati’ della mafia iniziano a seguirne gli spostamenti e spiarne le abitudini.

Non doveva necessariamente essere ucciso quella sera, ma alcune circostanze casuali resero quanto mai semplice il compito: il parroco è solo e indifeso, quindi facilmente attaccabile, sta rientrando nella sua casa al numero cinque di piazzale Anita Garibaldi quando il commando di Brancaccio lo incrocia per caso. Mentre don Pino si accinge ad aprire il portone, Spatuzza gli si avvicina, gli mette una mano nel borsello – poiché la sua uccisione doveva sembrare una banale rapina finita male, per non fare troppo clamore – e dice “Padre, questa è una rapina”.

Padre Pino Puglisi sorride, forse ironicamente forse amaramente, ma sorride e dice soltanto “Me l’aspettavo”. Salvatore Grigoli gli spara un solo e silenzioso colpo alla nuca, don Pino diventa il primo martire della Chiesa ucciso dalla mafia e sarà proclamato beato il 25 maggio del 2013.

Don Peppe Diana e padre Pino Puglisi non devono rimanere due sterili simboli dell’antimafia da commemorare per la loro drammatica morte; piuttosto la loro vita, fatta di un insieme di faticose scelte quotidiane e di ostinati gesti che miravano a cambiare le persone e la società in preda alla mafia, deve diventare un esempio e un punto di riferimento.

In un periodo come questo in cui la mafia preferisce rimanere sommersa e antepone il silenzio degli affari illeciti al clamore degli omicidi, non si può comunque abbassare la guardia. Di fronte al fenomeno mafioso, anche la Chiesa deve assumersi la responsabilità di un ruolo culturale e sociale contro ogni forma di prepotenza e prevaricazione, senza esitazioni nel denunciare con forza anche le connivenze politiche e istituzionali.

 


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