Anno: 2011
Durata: 92′
Genere: Fantascienza/Drammatico
Nazionalità: USA
Regia: Mike Cahill
Durante il corso di Semiotica, il mio professore, sì sempre quello con il nome del vino a buon mercato, faceva frequentemente riferimento alla superiorità della lingua su tutti gli altri sistemi di segni, perché con essa si può parlare di tutto. E tuttavia la lingua è, come tutte le semiotiche, un ecosistema basato sulla convenzione.
La rosa se pur non si chiamasse rosa profumerebbe lo stesso.
Vivendo immersa in un’altra cultura, tra le prime vitali nozioni che ho dovuto assimilare vi sono le interiezioni, a mio avviso una delle parti più importanti del sistema lingua. Wow, ugh, sigh non sono null’affatto espressioni accessorie. Tutt’altro, sono i salvagente della comunicazione verbale, strumenti così potenti da potervi imperniare anche la più sofisticata delle conversazioni.
Una delle mie interiezioni inglesi preferite – ed abusate – è “meh”. Con il versatile “meh” si può dar conto di un universo semantico molto complesso: dalla noia, all’indifferenza, all’aperta disapprovazione. Ma potrei persino spingermi oltre ed arrivare ad affermare che sotto la flessibile cupola del “meh”, per quanto mi riguarda, si può ben collocare il mio giudizio sul 78% della produzione cinematografica indipendente americana. Punto più, punto meno.
Il fatto che il Cinema Indie sia diventato così terribilmente “meh” è una tragedia di proporzioni colossali. I giovani e gli indipendenti non osano più, si rifugiano sotto le calde coperte del kitchen-sink drama, del bislacco o del minuto, dell’ultra violento o del montaggio sincopato, della piattezza narrativa – sinonimo, pare, di realismo, stando ad un’interpretazione perversa del concetto. Che sonno. E che rabbia quando a farne le spese sono proprio i generi – posso usare la categoria di “genere” o mi riterrete scandalosamente passé? – dove da sempre il Cinema Americano ha eccelso, come ad esempio la Fantascienza.
Tra i vari must see di questo sgraziato 2011 appena terminato, spiccavano anche un paio di titoli di science-fiction filosofica, il tanto, com’è ovvio e prevedibile, osannato Melancholia di Lars Von Trier e il meno blasonato, ma altrettanto atteso, Another Earth di Mike Cahill.
Rhoda (Brit Marling, anche co-sceneggiatrice del film) è un’adolescente dal futuro brillante, destinata ad una carriera di successo come astronoma diplomata a Yale. Quando, la sera della festa della maturità, si diffonde la notizia dell’esistenza di un pianeta gemello alla Terra, Rhoda rimane coinvolta in un tragico incidente durante il quale perdono la vita la moglie e il figlio del noto compositore John Burroughs (William Mapother). Rhoda viene condannata. Dopo aver scontato una pena di quattro anni, la ragazza lascia il carcere e ritrova una vita in frantumi. Il senso di colpa la soffoca e il desiderio di fare ammenda per il suo crimine la porta a contattare John. Intanto la “Seconda Terra” è sempre più visibile ed un miliardario indice un concorso per partecipare alla spedizione che si appresta a decollare verso il pianeta gemello.
Avevo moltissime aspettative su Another Earth. Gli ingredienti, apparentemente, c’erano tutti. Un budget irrisorio che stimolasse al coraggio creativo, due giovani sceneggiatori autodidatti – come ci piacciono gli outsiders, soprattutto in ambiti dove il grande dollaro spadroneggia –, una storia che contemplasse le più grandi questioni umane, l’amore, la morte, il perdono e l’altro da se stessi, una produzione raffinata e via discorrendo. Stando alle opinioni degli addetti ai lavori e alla frenesia del passaparola, m’immaginavo, anzi pretendevo, un film bellissimo, cupo e siderale, intellettualmente stimolante, ma in un certo qual modo commovente.
E invece? Invece meh.
Qualche inquadratura suggestiva, non comporta la quadratura del cerchio.
D’altra parte, la recitazione meccanica e de-umanizzata di Brit Marling e William Mapother sarebbe in grado di svilire e disinnescare anche i più viscerali dei sentimenti, che sia la vendetta o l’odio. Sono persuasa che potrei davvero avere una crisi isterica se mai qualcuno dovesse ribattere che si voleva essere minimali e realisti. I veri alieni, anzi i veri zombie, per proporre un crossover di genere tanto di moda, sono questi personaggi che agiscono a mo’ di ultracorpi, senza reale motivazione. Emettono suoni, svolgono compiti, enunciano frasi che non trovano la benché minima corrispondenza con la prossemica e mimica degli attori. Forse, forse che mi si voleva essere brechtiani? Non credo, onestamente, soprattutto perché Another Earth non è mai, neppure lontanamente, surreale, è semplicemente non credibile.
Stefania Paolini
Per visionare il trailer: Another Earth