Regista: Mike Leigh
Attori: Jim Broadbent, Ruth Sheen, Lesley Manville, Oliver Maltman, Peter Wight
Paese: UK
Presentato a Cannes e vincitore del premio per la miglior sceneggiatura originale agli oscar 2011, “Another Year” è una pellicola per certi versi spiazzante; non che Leigh, comunque, non metta fin da subito in chiaro quale sia lo spirito di questa sua apparente commedia, intendiamoci. La scena d'apertura è infatti dedicata unicamente alle espressioni di una donna anziana, chiaramente depressa, alle prese con una vita che non è andata nel verso in cui doveva andare. La telecamera si sofferma sul suo volto in maniera insistente, tanto da non inquadrare neanche la dottoressa; un volto capace, grazie all'interpretazione breve ma intensa di Imelda Staunton, di restituire disagio e amarezza; un volto che altro non è se non quello della pellicola, nonostante da questo momento in poi non lo si vedrà più sullo schermo.
I protagonisti sono altri e di essi solo uno verrà a contatto, seppur marginalmente e per poco tempo, con la donna anziana. È Gerri, psicologa realizzata e moglie di Tom, geologo realizzato a sua volta. Una coppia dal sapore borghese la cui vita sembra perfetta: un figlio indipendente e autonomo, una bella casa, un orto dove passare le giornate, un equilibrio invidiabile ed una felicità palpabile. Di tanto in tanto organizzano cene ed ospitano amici palesemente non fortunati quanto loro perché alle prese con insoddisfazioni e rimorsi che non riescono a gestire. Su tutti Mary, sola e sempre sull'orlo di una crisi di nervi.
La scena di cui si scriveva, del contatto tra la psicologa e la donna anziana, racchiude in sé la struttura dell'intera pellicola. È la contrapposizione tra due realtà che non comunicano tra loro per scelta unilaterale. Felicità e tristezza. La prima tiene a distanza la seconda, o le si avvicina non più del necessario, quasi avesse timore di un contagio eventuale. Se inizialmente la distanza è giustificata dalla situazione professionale, nel prosieguo no. Sembra che Leigh suggerisca subito allo spettatore il carattere raccontato, per poi giustificare il suo sguardo nei suoi confronti una sequenza alla volta. Dopo la scena d'apertura, infatti, il regista ricomincia da zero, descrivendo Gerri e Tom come la coppia perfetta. Non si può fare a meno di avvicinarsi agli stessi; di sperare, quasi, di riuscire a trovare la loro stessa serenità. Sono in assoluta sintonia, lei sa cucinare ma lui anche, si avvicinano e si coccolano come se nulla fosse cambiato negli anni, premurosi l'uno con l'altro, mangiano ciò che hanno piantato e raccolto. La coppia perfetta, per l'appunto.
Leigh è inoltre bravo a non farli risultare stucchevoli. È sua ferma intenzione non renderli fin da subito negativi. Al contrario, racconta la loro ospitalità attraverso le cene organizzate ora con Mary, ora con Ken, anch'egli distrutto da rimorsi e insoddisfazioni. Durante le stesse, come del resto durante l'intera pellicola, la regia stringe sui volti dei suoi protagonisti perché sono l'unica cosa che le interessa. Coglierne tutte le sfaccettature, soprattutto quelle meno superficiali.
È con uno sguardo così attento e fermo che Leigh inizia a cambiare prospettiva per poi ribaltarla del tutto. Lo fa prendendosi tutto il tempo necessario, tanto che quasi lo spettatore non si rende conto che a cambiare gradualmente è anche la sua di prospettiva, in seguito ai tratti aggiunti volta per volta dal regista al ritratto in corso d'opera dei suoi protagonisti. È così che quella comprensione che Gerri e Tom sembravano rivolgere ai loro amici, si rivela in realtà compassione; è così che quello che sembrava un rispettoso non giudicare diviene caustica noncuranza. Allo stesso modo quel loro essere ospitali, quel loro accogliere in casa con una disponibilità invidiabile, diviene un mettere in mostra (specie di fronte a Mary) la loro perfezione, un crogiolarsi nella stessa, come se avessero bisogno di splendere al contrasto con l'imperfezione.
Non fanno nulla di concreto, infatti, per entrare in contatto con la tristezza dei loro amici, per capirla e sostenerla, e magari anche aiutarla. Fintanto che restano lì, mangiano dalla ciotola che viene loro servita, stanno buoni e non sporcano, va bene. In caso contrario no, vanno rimessi in riga.
Benefattori un tanto al chilo che non hanno intenzione alcuna di sporcarsi le mani; si attengono ad un perbenismo di facciata quando serve e dedicano se stessi solo a chi sembra degno di meritare lo status da loro raggiunto. Non a caso la ragazza del figlio viene accolta in famiglia senza remore, essendo anche lei dedita a discorsi privi di qualsivoglia spessore e ad una superficialità che è la chiave di una torre che ben si guarda dall'accogliere gente come Ken e Mary al suo interno.
Al termine, “Another Year” della commedia non ha assolutamente nulla. È anzi uno sguardo indignato ma sempre chirurgico su un'indifferenza tanto irritante quanto distruttiva. E su un disagio incapace di reagire, ancor più indifeso se lasciato solo. A sottolinearlo un finale potente e rassegnato affidato allo sguardo intenso di una Lensley Manville strepitosa, punta di diamante di un comparto attoriale perfetto.