Ansia e dipendenza affettiva: quando ammalarsi è meglio separarsi da qualcuno

Da Silvestro

A cura della Dottoressa Anna Chiara Venturini, psicologa psicoterapeuta a Roma

Un sottile filo che si fatica a recidere.

Soffrire di attacchi di panico, fobie e altri disturbi dello spettro ansioso, rimanda a dinamiche emotive e psicologiche non risolte, per quanto riguarda il processo di separazione, evoluzione e crescita personale.

Solitamente, infatti, le prime crisi emergono in concomitanza con “grandi passi della vita” ( università, matrimonio, cambio di lavoro, crisi coniugale) oppure lutti importanti: in ambo i casi la persona è chiamata ad un enorme sforzo personale per acquisire l’indipendenza necessaria a camminare con le proprie gambe, a dare alla vita un direzione ben precisa.

La motivazione è legata alla difficoltà di gestione del conflitto, della separazione e spesso alla difficoltà di creare nuove strutture che vadano a sostituire vecchi schemi. Si tratterebbe infatti di una evoluzione necessaria quella di “reinventarsi” , ma in questo caso la persona non riesce a gestire le angosce di perdita, di abbandono, di separazione e di colpa.

Chi soffre di disturbi d’ansia ha paura di perdere ( per colpa o per inadeguateza proprie) persone e affetti per lui ritenuti fondamentali e proprio per tale ragione “evita” ogni tipo di conflitto e sabota ogni tentativo di emancipazione con “attacchi d’ansia” che così rimettono tutto a posto, tutelando l’individuo nel suo ruolo di vittima-dipendente.

Molto spesso infatti, capita di trovarsi di fronte a persone che in preda a crisi d’ansia smettono di guidare per paura di trovarsi soli in auto e non aver nessuno che li soccorra in caso di attacco di panico.

Se ci riflettiamo un momento, la macchina è il simbolo dell’autonomia per eccellenza, ma non solo. L’auto simboleggia la propria vita, e per la persona ansiosa-dipendente è impensabile assumersi una responsabilità di questo tipo.

Alla base vi è infatti un profondo senso di inadeguatezza e vulnerabilità riassumibili nelle frasi “Non valgo abbastanza” e “potrebbe accadere qualcosa di terribile”, uniti  ad uno schema di dipendenza : “Non posso farcela da solo”

Le persone ansiose, sono state bambini ansiosi (definiti dalla Ainsworth come“resistenti”), che non sono riusciti ad usare la madre o il caregiver come base sicura per poi esplorare il mondo. Il nostro “modello operativo interno” di rapporto con la madre si dispiega nel corso dell’infanzia  nel rapporto con fratelli e amicizie,  nell’adolescenza viene applicato alla prima “relazione affettiva”, per poi divenire più radicato e palese nel rapporto stabile del matrimonio o convivenza.

Adulti ansiosi temono costantemente il rifiuto e l’abbandono, scoraggiano l’autonomia e l’indipendenza di coloro che amano, usando a tal proposito le proprie difficoltà come alibi per impedire loro di allontanarsi.Il meccanismo che scatta fa riferimento alle proprie potenzialità e alle convinzioni di base che poi vengono confermate con l’agire. Vediamo meglio.                                                     

Se sono convinto che non valgo e che se accadrà qualcosa di negativo da solo non ce la farò, ignoro le mie potenzialità o le sottostimo, adotto delle azioni che mi evitano di sperimentare la mia efficacia e di conseguenza i risultati che otterrò saranno in linea con le mie convinzioni di base: che da solo non ce la faccio ed ho bisogno di qualcuno accanto che mi guidi e mi sostenga nelle cose.

In definitiva ansia, dipendenza e stile comportamentale passivo, vanno spesso di pari passo partendo dalla medesima base: un attaccamento insicuro che determina relazioni basate sulla sottomissione, sulla paura dell’abbandono e su una emotività adesiva, in cui l’altro è quello che sa cosa è meglio per noi, che ci protegge dal mondo pericoloso ma al contempo può essere iperpresente e soffocarci controllandoci.

L’arma a doppio taglio di questa modalità relazionale è proprio questa: l’altro controlla e ci soffoca, mentre noi continuiamo a delegare a lui la nostra esistenza e la responsabilità nel condurla.

Da qui il conflitto che scoraggia ogni tentativo di autonomia messo in atto spesso anche dall’altro: in definitiva, se da un lato la persona ansiosa e dipendente richiede presenza-sostegno, dall’altro chi è dall’altra parte, sente si il peso della responsabilità, ma al contempo ha il vantaggio di poter controllare la persona oltre ad ottenere il ritorno narcisistico legato alla propria importanza.

Facciamo un esempio.

Una donna è convinta di non essere abbastanza intelligente per sbrigare le faccende legate all’amministrazione economica della casa: demanda al marito il quale la solleva da queste responsabilità, controlla l’andamento economico della casa, accentra il potere economico, mentre lei sperimenta frustrazione per non essere capace, per aver bisogno del marito in queste cose, ma, non prendendo mai l’iniziativa, alimenta la propria convinzione di non essere all’altezza, provando magari anche rabbia verso di sè per questo, e verso il marito “più capace”.

E’ dunque spesso un meccanismo malsano che fa si che per ogni soggetto ansioso-dipendente-vittima, vi sia l’altro guida-controllo-carnefice.

Ecco perchè è importante andare a lavorare sugli schemi che alimentano la dipendenza e il senso di vulnerabilità collegato ai sintomi ansiosi: sperimentarsi e costruirsi come incapaci, inadeguati porta l’individuo a focalizzare la propria attenzione selettiva su quelli che sono i propri difetti, mancanze ed eventuali svalutazioni in caso di compiti che richiedono l’uso di abilità e potenzialità che lui per primo non si riconosce. Ecco quindi la comparsa dei sintomi ansiosi che gli permettono di delegare ad altri e quindi evitare ( l’evitamento è la miglior forma di rinforzo di comportamenti disfunzionali) di sperimentarsi invece come persona capace.

Dipendere permette di sentirsi protetti e sicuri, mentre l’altro è appagato perchè controlla e si sente importante. In realtà, quando questo meccanismo supera la soglia del credibile allontanandosi completamente dalla realtà, diventa deleterio per se stessi e controproducente per la relazione: quello non è più amore, è sottomissione.

Fare confusione tra amore e bisogno di protezione e sostegno è deleterio in una relazione: se non si sviluppa una personalità autonoma, un’indipendenza fisica ed emozionale che ci conferisce un’identità solida come individui, si può finire per trovarsi invischiati in relazioni infelici, da cui non si ha nemmeno il coraggio di uscire perchè la solitudine spaventa troppo.

Costruirsi e sperimentarsi ogni giorno, imparando dalle esperienze senza giudicarci incapaci, ma come esseri umani che “collezionano esperienze di vita”, ci permette di affrontare le varie situazioni giornaliere come occasioni di crescita e non come banco di prova per misurare il nostro valore.

Sbagliare è umano, imparare è importante, ma restare inchiodati in una relazione che ci fa da alibi è il più grande danno che possiamo arrecarci, perchè ci stiamo condannando all’immobilità delegando qualcun altro a vivere la nostra vita.

Ricordiamoci che ogni giorno può essere il primo di una nuova vita dove possiamo essere attori protagonisti senza più bisogno di controfigure.

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