ansie scolastiche post-adottive

Da Ubik

Nel recente passato ho conosciuto 2 persone molto diverse eppure simili. Due biografie molto lontane tra loro, mentre comune è la radice del loro passato. Si tratta di due giovani ragazze conosciute in momenti diversi che sono state adottate diversi anni fa. La vita di una delle due stenta ed è difficile anche se apparentemente spensierata, da poco maggiorenne ha un figlio da qualche anno, ha finito le scuole con il rotto della cuffia e si arrangia con i lavoretti che i genitori riescono a trovare via via; l’altra l’ho conosciuta al corso pre-adozione ed era l’assistente sociale dello staff che ci seguiva.

Nel gergo degli ‘addetti ai lavori’ e dei genitori adottivi si usa dire, forse banalmente, che entrambi cercano di riempire un vuoto e si prendono cura in questo modo delle loro ferite. Senza barare ammetto che l’assistente sociale è la scelta che mi tranquillizza come genitore, mentre l’altra mi provoca ansia. Perchè penso al futuro dei miei figli e come tutti i genitori investo e spero per il loro futuro. E senza finzioni sento una differenza con i genitori naturali perchè ci troviamo a dover condividere, gestire, sostenere tutto quello che deriva dal passato di questi piccoli, visto che tutto quel tempo ci è sconosciuto sia a livelli profondi e no.

Per un genitore adottivo, dopo qualche tempo, arriva il complicato incontro con la scuola e la necessità di doversi confrontare con una istituzione che educa e forma, ma che risulta impreparata di fronte a questa esperienza. Non è un caso che molti nodi dei Forum, convegni e libri sono dedicati al delicato inserimento e al rendimento scolastico; non è un caso che le discussioni principali negli incontri di mutuo-aiuto riguardino maestre, compagni, strafalcioni, rifiuti.

Il problema si pone subito o quasi. Se ad esempio si rientra in Italia quando l’anno scolastico è in corso s’inizia una difficile mediazione con (è il caso di dirlo) le autorità scolastiche: avete pre-iscritto i vostri figli e la scuola appena rientrati li vorrebbe subito per sè. La raccomandazione che viene fatta da psicologi, servizi, ‘addetti ai lavori’ è quella di aspettare prima di mandare i figli a scuola. Non è solo per abituarli alla nuova realtà (paese, famiglia, lingua, parenti), ma è un periodo che serve anche per rassicurarli e per consolidare una fiducia verso di noi: devono sentirsi sicuri di noi. La scuola recepisce male e lo intende, al più, una stranezza originale. Molte volte le maestre capiscono e si fa finta di niente, tra l’altro non è neanche chiaro se una legge c’è a questo proposito (provate, tra le tante cose da fare, a venirne a capo). E a meno di maestre sensibili o preparate, una volta che si è partiti c’è il rischio che i problemi manifestati dai figli vengano trattati al pari dei problemi dei bambini immigrati. Senza nulla togliere a questi, si hanno problemi molto diversi.

Il fatto ad esempio che l’età media dei figli adottati sia più alta rispetto a molti anni fa pone il problema di una formazione adeguata non solo della famiglia, ma soprattutto degli insegnanti. E la scuola dovrebbe mettersi in ascolto e trovare un percorso condiviso con i genitori: meglio il tempo pieno o il modulo? meglio seguire un programma che all’inizio tenga conto delle ansie e della paura di essere valutati oppure preoccuparsi solo del ritardo culturale?

Secondo una recente indagine statistica svolta da alcuni enti è emerso che il 70% delle adozioni internazionali riguardano figli con bisogni speciali (la definizione gergale tra gli ‘addetti ai lavori’ è “special needs”). La scuola sembra che non abbia gli strumenti per conoscere il fenomeno dell’abbandono minorile e il mondo dell’adozione. Spesso i maestri parlano di adozione con un disagio mascherato da comprensione. Durante i colloqui periodici si vedono genitori sforzarsi per spiegare concretamente una situazione di abbandono e violenza e maestri protesi ad ascoltare, ma senza mettere in relazione la biografia con gli errori e i rifiuti, le vergogne e i silenzi. I fattori principali di un inserimento difficile per un figlio adottato sono i soliti per chi ci si trova e che a ripeterli sembrano perdere forza: probabili danni biologici pre-peri-post/natali; trauma e stress d’abbandono; cambiamenti drastici nella vita dei figli; disturbi e ansie legate all’attaccamento.

Il vecchio adagio va sempre bene: “Che Fare?”. Alcune cose sono molto semplici da fare, altre meno e necessitano di sostegni professionali e percorsi condivisi quindi più faticosi e visto lo stato dei servizi e della scuola, meno comuni nella realtà. Ad esempio si possono trovare momenti e percorsi dove è possibile raccontare, magari valorizzando alcune cose e momenti e non la propria storia che sarà molto dolorosa e di cui si ha vergogna. I figli adottati hanno poca stima di sè e vengono immaginati in contesti poco definiti. Eppure in quella realtà, per noi o per gli altri - sfocata, esistono sfumature ed esperienze di  vita; piccole sapienze, gioie, abilità manuali che insieme ai genitori possono essere riconosciute e raccontate a scuola: aver munto una mucca, saper pescare, aver cucinato, accudito. E pensare che alle riunioni d’inizio anno vengono proposte gite a Fattorie Didattiche, proposti lavoretti; incentivata la manualità. L’esperienza del mondo esterno. Per molti figli adottati queste cose possono rappresentare la chiave di accesso per essere accolti dai nuovi compagni. Si possono costruire momenti della giornata scolastica dove tutta la classe condivide esperienze  attuali magari con l’aiuto di un disegno, di un oggetto. Evitando l’accento su quelle passate.

Le maestre/i dovrebbero ricordarsi delle famiglie non tradizionali e impegnarsi insieme ai genitori sul modo di come presentarle nella classe; non dovrebbero sostituirsi ai bambini nel raccontare se questi hanno voglia di dire “sono stato adottato” (alcuni lo fanno per difendersi mettendosi in evidenza); dovrebbero perdere tempo a raccontare e suggerire leggeri, dando lo stesso spazio e quindi la stessa importanza a tutti i tipi di famiglia, lasciando disegnare  per dare forma e colore ai sentimenti che ogni storia personale porta con sè. Dovrebbero costruire la condivisione delle storie famigliari attuali regalando il tempo e l’importanza per ciascuna delle diverse famiglie che sono presenti in quella classe: famiglie allargate perchè separate, madri single, le culture di quelle migranti e quelle adottive. Dando sostanza a quel pensiero che vede ciascuna famiglia uguale all’altra seppure differente nelle tipologia.

Insomma si tratta di ascoltare, ma soprattutto di sentire dentro di sè e d’impegnarsi nel proprio compito affinchè i figli adottivi non si autoescludano per la paura di non farcela, perchè non capaci di mettersi in gioco e sentirsi accolti come in casa. Soprattutto perchè i genitori non possono e non riescono a sostituirsi ai maestri e perchè ogni genitore spera che tutto quel tempo passato lì serva a loro per riuscire a scegliere il bello, il meglio e il giusto.