Iniziando da Ant-Man, nutrivo non pochi dubbi sulla buona riuscita del film, viste le difficoltà di realizzazione, che hanno comportato il passaggio di consegne dall’originario Edgar Wright (il cui nome risulta comunque fra gli sceneggiatori, insieme a Joe Cornish, Adam McKay e Paul Rudd) a Peyton Reed.
Michael Douglas
Mi chiedevo, infatti, quale potesse essere la resa sul grande schermo di un personaggio che nei comics d’origine (la prima apparizione risale al gennaio 1962, Tale to Astonish, vol. 1, n. 27, Stan Lee e Jack Kirby) non aveva in fondo riscosso un particolare successo, pur rimarcando la sua indubbia “responsabilità” all’interno del ciclo narrativo della Marvel, considerandone la rilevanza, insieme a Wasp, relativamente all’originaria formazione degli Avengers. Le titubanze si sono dissolte man mano che l’impianto narrativo iniziava a delinearsi, dopo due prologhi introduttivi.
Il primo ci riporta indietro negli anni, 1989, quando lo scienziato Hank Pym (Michael Douglas) dà le sue dimissioni dallo S.H.I.E.L.D., una volta scoperto come all’interno dell’organizzazione si stia tentando di replicare una formula di sua invenzione, idonea ad attuare una miniaturizzazione molecolare sugli esseri umani. Il secondo si svolge ai giorni d’oggi, e vede protagonista Scott Lang (P. Rudd), appena uscito di galera ed accolto dall’ex compagno di cella Luis (Michael Peña), il quale, insieme ad una piccola gang di ladruncoli, vorrebbe impiegarlo al più presto nel solito “colpo grosso”, considerandone agilità e prontezza di riflessi.
Paul Rudd
Ma Scott nutre dei forti dubbi al riguardo, è pur sempre un ingegnere elettronico e confida nel riuscire a trovare subito un lavoro. Purtroppo la fedina penale costituirà ben presto una discriminante, per cui, con un divorzio alle spalle e l’impossibilità di vedere l’adorata figlia per il mancato pagamento degli alimenti, eccolo invischiato in un furto del tutto particolare, che lo porterà a fare conoscenza proprio con l’ormai anziano, ma indomito, Pym.
Questi, una volta constatate le manovre, cui non è estranea sua figlia Hope (Evangeline Lilly), volte a far sì che l’azienda di sua proprietà, passi sotto il controllo dell’ ex pupillo Darren Cross (Corey Stoll), ha escogitato un piano per evitare che la sua scoperta venga usata per fini bellici, al cui interno proprio Scott avrà un ruolo importante. Sarà infatti lui ad indossare la tuta di Ant-Man, per un passaggio di consegne che, fra maldestri rimpicciolimenti e un addestramento comportante anche l’apprendimento del linguaggio proprio di varie specie di formiche, rivelerà non poche sorprese …
Il tema dell’incontro-scontro fra allievo e maestro, l’uno giovane ed inesperto, l’altro più saggio e scafato, non è certo una novità all’interno di un iter narrativo, non solo cinematografico, ma, ad avviso di chi scrive, rappresenta uno dei punti di forza di Ant-Man.
Michael Peña
E’ infatti estremamente piacevole assistere, pur nella sua ripetitiva classicità, alla reciproca conoscenza di due supereroi, Pym lo è stato, Scott lo sarà, con vari superproblemi in comune, dal disadattamento sociale, voluto e ricercato, ammantato da una certa disillusione, nel primo, imposto da alterne circostanze nel secondo, alle difficoltà di rapportarsi con le rispettive figlie, per le quali rappresenteranno sempre un punto di riferimento. Del tutto valide le prove attoriali di Rudd, a suo agio nei panni del loser alla ricerca di un suo posto nel mondo e del vecchio marpione Douglas, che si ritaglia con disinvoltura la parte di un moderno dandy, idealista e sapientemente distaccato, mentre appaiono un po’ sacrificate le interpretazioni offerte dalla Lilly e dal pur bravo Cross, villain con un motivo ma non propriamente carismatico. Particolarmente riuscito l’innesto di Peña quale ulteriore, decisivo, alleggerimento ironico, le modalità digressive nel raccontare ai suoi accoliti le modalità in cui ha appreso la possibilità di metter su un colpo e come attuarlo si rivelano piacevolmente spassose.
Evangeline Lilly
Scrittura e regia mi sono parse particolarmente brillanti; Reed, anche se può apparire un po’ sottotono, è abile nell’assecondare l’impatto visivo dovuto ai subitanei effetti della miniaturizzazione e del conseguente ingrandimento, ammiccando, pur nella moderna, ma non invasiva, resa digitale, tanto ai classici di fantascienza (The Incredible Shrinking Man, Jack Arnold, 1957), quanto a popolari commedie (Honey, I Shrunk the Kids, Joe Johnston, 1989). Ecco quindi sequenze particolarmente riuscite nella loro essenziale e giocosa spettacolarità, che si tiene lontana da studiate ed esibite rodomontate. Memorabile il rimpicciolimento di Scott all’interno di una vasca da bagno, mentre Luis apre il rubinetto creando per il neo uomo-formica un devastante effetto tsunami, la conoscenza di Falcon (Anthony Mackie), la cavalcata delle formiche in stile “arrivano i nostri” da vecchio western, ma soprattutto, considerandone la capacità di abbracciare uno stile “fumettoso”, la scena dello scontro con il Calabrone, che ha come insolita arena la stanza della figlioletta di Scott e vede come terzo protagonista il mitico trenino Thomas.
Il Calabrone
In conclusione un film profondamente e piacevolmente umano nel mettere in scena la genesi di un “supereroe per caso”, forte di un’accattivante leggerezza, pur nella sua logica preparatoria e prosecutrice al contempo, così da aggiungere un nuovo tassello al complesso mosaico Marvel– Disney (ulteriormente suffragata dalle sequenze post credits), ormai, riprendendo quanto scritto ad inizio articolo, assecondato alla logica seriale da cliffhanger d’antan, ancor prima che alle produzioni televisive. Le caratteristiche proprie di un richiamo ai titoli precedenti ed un finale aperto verso un nuovo capitolo si ritrovano anche nel quinto episodio di Mission: Impossible, saga originata dalla serie tv trasmessa negli Stati Uniti dal ‘66 al ‘73 (ideatore Bruce Geller), avviata nel ‘96 per la regia di Brian De Palma e proseguita con John Woo, J. J. Abrams e Brad Bird. Scritto e diretto da Christopher McQuarrie, Rogue Nation si caratterizza per un tratteggio piuttosto ironico ed autoironico, già avvertibile nell’adrenalinica sequenza iniziale, il recupero ad opera di Ethan Hunt (Tom Cruise) di una partita di gas nervini in mano a dei terroristi ceceni, che poi si insinua con fare sornione nel corso della narrazione.
Si passa con fluido e leggiadro savoir- faire cinematografico da sequenze giocate con una certa sagacia sfruttando le soggettive dei protagonisti in scena, come quella, particolarmente bella, girata all’interno dell’Opera di Vienna, mentre è in corso la rappresentazione della Turandot di Puccini, ad altre tese e concitate (gli inseguimenti in auto e moto). In particolare nella sequenza dell’Opera, l’interazione fra i personaggi in campo, i quali hanno un obiettivo in comune ma spinto da diverse motivazioni, riesce a creare con naturalezza un clima di suggestiva suspense, idoneo fra l’altro ad omaggiare, senza troppi clamori, L’uomo che sapeva troppo di Alfred Hitchcock. Altrettanto coinvolgente, carica d’empatico pathos, emblematico vessillo della sospensione dell’incredulità, è una sequenza subacquea che vede Ethan impegnato a disinstallare un codice d’accesso così da facilitare l’ingresso del fido Benji (Simon Pegg)in un caveau superprotetto.
Tom Cruise
Ho volutamente evitato di narrare per esteso la trama, per non svelare nulla delle tante sorprese sparse lungo il racconto, che si riallaccia in modo diretto al precedente Protocollo Fantasma, rendendo sempre più tangibile la presenza di una micidiale organizzazione parallela ai servizi segreti, il Sindacato, intenta a screditare e debellare la Mission Impossible Force attraverso una serie di mirati attentati terroristici, nel tentativo di dar vita ad una sorta di nazione alternativa idonea a mettere in campo un nuovo ordine mondiale.
Il buon vecchio Tom (Cruise) è certo protagonista assoluto, anche nelle sequenze d’azione, forse il suo Ethan è meno “leggero” nello stile rispetto al collega Bond, ma può sempre contare su un buon mix di senso pratico e indomito idealismo. Ottima la resa dei consueti comprimari, con Benji/Pegg fondamentale nello sviluppo della trama, in particolare nel sostenerne i toni scanzonati d’alleggerimento, così come quella di Jeremy Renner (Brandt) e Ving Rhames (Stichell), pur se possono apparire un po’ sacrificati rispetto al passato.
Rebecca Ferguson e Cruise
La vera sorpresa comunque, almeno a parere di chi scrive, è Rebecca Ferguson nei panni dell’agente segreto Ilsa Faust, sensuale femme fatale da classico del cinema nella sua esibita e fascinosa ambiguità, cui ben si addice il tema portante della citata Turandot, considerando l’aura di mistero che l’avvolgerà sino alla fine. Mission:Impossible- Rogue Nation si sostanzia in definitiva come un ritorno all’action thriller con toni da spy story più puro ed essenziale, la cui raffinatezza si sostanzia, sempre a parer mio, a livello di scrittura ancor prima che d’impatto visivo. Riesce infatti a rendere tangibile un clima di misteriosa ed incombente minaccia il cui insinuarsi renderà sempre più labili i confini fra Bene e Male, costringendo quanti ritengono di operare per le necessità superiori della propria causa, ad indossare ora la maschera dell’opportunismo, ora quella della coerenza, fino al raggiungimento dello scopo finale, ai cui risultanti benefici si potrà anche risultare estranei (la sequenza conclusiva, con Ethan ormai fuori scena).
Simon Pegg
Ant-Man e Mission: Impossible- Rogue Nation, in conclusione, possono considerarsi due valide realizzazioni all’interno dei rispettivi generi, capaci di riaffermare con forza le reciproche identità; sfruttano coerentemente una concreta spensieratezza nell’assecondare un’impostazione ludica, da un punto di vista puramente visivo e non solo, ed intrattengono senza puntare a stupire a tutti i costi, ma, più semplicemente, tendono a far divertire gli spettatori rendendoli partecipi del diletto creativo espresso in corso d’opera, simbiosi funzionale alla magia del cinema, al di là del pur presente calcolo commerciale.