Ufficiosamente la vicenda era ben nota a tutti, anche se fa male leggerlo nero su bianco. Credo che abbia scosso l’opinione pubblica, forse non nelle coscienze, non per tutti per lo meno, ma lo spegnimento di un segnale acceso da oltre trent’anni desterebbe l’attenzione di chiunque.
Il blackout è molto più che solo tecnico e in questo caso il cartello “Le trasmissioni riprenderanno il più presto possibile” è solo un palliativo.
Black-out, letteralmente significa nero fuori, ma il nero è nelle teste e nei cuori di chi ha lavorato in un luogo benedetto e dannato allo stesso tempo, e adesso più che un segnale spento è un elettrocardiogramma piatto. L’ho letto tante volte negli occhi dei miei colleghi, prima ancora che nei miei, che lì dentro hanno lavorato per un decennio e più. Lo vedo tra le prime rughe dei miei coetanei che come me, in fondo, ci hanno creduto, anche se nessuno di noi lo avrebbe mai ammesso.
Negli ultimi tempi mi sono sentita dire tante volte che in fondo sono giovane (tutto è relativo), in gamba (è relativo anche questo), che ho tutta la vita davanti (relativismo assoluto), ma questo non mi tutela certamente dall’espormi ai rischi, come quelli che mi hanno vista protagonista di proposte di lavoro basate su ricatti taciti, subdoli, ma fin troppo espliciti allo sguardo di chi ha un briciolo di amor proprio e senso critico.
Il fallimento vero si rischia dopo quello economico, se non subentra la messa in discussione, la ricostruzione.
Non basta reinventarsi per trovare un nuovo lavoro, bisognerebbe reincarnarsi, rinascere in un nuovo corpo, un corpo illeso, prendendone in prestito non solo le sembianze, ma le sensazioni e le ambizioni, per poter sperare che chiusa una porta, un’antenna in questo in caso, si apriranno portoni, si costruiranno interi cantieri, e i fallimenti solo allora saranno riscattati.
Tuttavia, il mio umore rimane benigno, e non posso concedermi strappi alla regola.
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