Trama: Sage Singer è una ragazza solitaria. Evita ogni contatto con il mondo, nasconde il proprio volto sfregiato in seguito ad un incidente, si rifugia in una relazione clandestina perché le consente di non impegnarsi fino in fondo. Finché non stringe amicizia con un vecchio signore, Josef Weber. Insegnante in pensione, di origine tedesca, Weber è un filantropo benvoluto da tutti nella piccolo comunità in cui vive. Ma un giorno, contando sul rapporto di stima e affetto che li lega, Weber chiede a Sage un favore molto particolare che sconvolgerà la ragazza. Scioccata, confusa, Sage non acconsente ma non può rifiutarsi di ascoltare la confessione dell’anziano amico. Weber è stato nelle SS ed era fra le guardie di Auschwitz. E la nonna di Sage è una sopravvissuta ai campi di sterminio… Più voci narranti si alternano nella scrittura di Jodi Picoult, come sempre magistrale nel riannodare il filo dei ricordi sepolti nel passato e delle emozioni che agitano il presente. E la chiave, ancora una volta, sta nella potenza della narrazione: «Un racconto può essere molto potente. Può cambiare il corso della storia. Può salvare una vita. Ma può anche essere un buco nero, o le sabbie mobili, in cui si rimane impantanati, incapaci di scrivere per liberarsi». Sta a noi, alla nostra coscienza, scegliere la strada da prendere.
Un romanzo unico, l’autrice spiega perché:
«Questo mio libro è veramente diverso da tutti gli altri che ho scritto. Ci ho messo tutta me stessa. So che ci sono milioni di libri sull’Olocausto, ma come figlia di genitori ebrei e come scrittrice, credo di avere il dovere di dare voce a tante storie, storie che ancora aspettano una voce, e lo faccio nel modo che mi riesce meglio. Un terzo del romanzo si svolge più di settant’anni fa. Lo spunto mi è venuto dalla lettura di Il girasole di Simon Wiesenthal, nel quale l’autore racconta la sua prigionia in un campo di concentramento e di quando fu portato al cospetto di un nazista in punto di morte che voleva confessare le atrocità commesse e ottenere il perdono da un ebreo. Il dilemma etico che ha dovuto affrontare Wiesenthal è stato oggetto di innumerevoli analisi filosofiche e morali sulle dinamiche esistenti tra le vittime del genocidio e i carnefici, e mi ha fatto pensare a cosa sarebbe successo se la stessa richiesta di perdono venisse fatta molti decenni dopo alla nipote di una vittima. Per scriverlo non solo ho letto centinaia di testimonianze, ma ho personalmente intervistato i sopravvissuti o i loro figli e nipoti. Ho ascoltato storie terribili, come quella del piccolo Bernie che si è fatto promettere dalla madre che gli avrebbero sparato nel petto e non in testa… Vi immaginate come si sente una madre che deve fare una promessa simile? O di Gerda, sopravvissuta alle marce della morte solo perché il padre era riuscito a dirle, prima che li prendessero, di non mettersi le scarpe normali ma gli scarponi da montagna. O Mania, scampata alle selezioni perché parlava il tedesco ed era incappata in un ufficiale nazista che tentava di proteggere gli ebrei che lavoravano per lui…»