Come Il profumo delle foglie di limone di Clara Sanchez e Volevo solo averti accanto di Ronald Balsom, un romanzo di rara forza e potenza, che colpisce come un pugno nello stomaco e ci regala una prospettiva del tutto nuova sull’Olocausto.
Descrizione: Josef Weber è un vecchietto adorabile ma che in realtà nasconde un atroce segreto… Sage Singer è una ragazza solitaria. Evita ogni contatto col mondo, nasconde il proprio volto sfregiato in seguito a un incidente, si rifugia in una relazione clandestina con un uomo sposato. Ha scelto di fare la panettiera, soprattutto per lavorare di notte, nell’isolamento della sua cucina. L’unico a fare breccia nella prigione quotidiana in cui si è rinchiusa Sage è un anziano signore di origine tedesca, Josef Weber, benvoluto da tutti nella piccola comunità in cui vive. Ma un giorno Josef rivela alla ragazza un segreto terribile, confessandole il suo passato di ss e carnefice ad Auschwitz. Non solo, le chiede il perdono per i suoi crimini e, infine, di aiutarlo a morire. Sage, di famiglia ebraica ma atea, è tormentata da un dilemma atroce: sua nonna, Minka, è una sopravvissuta dei campi di concentramento, e solo settant’anni dopo quell’esperienza svela alla nipote il baratro in cui è sprofondata durante la deportazione. Come si può reagire quando si capisce che la persona che ha di fronte incarna il male assoluto? E’ possibile cancellare un passato criminoso con un comportamento irreprensibile? Si ha il diritto di offrire perdono anche se non si è la vittima diretta di un’ingiustizia? E… qualora Sage accogliesse la richiesta di Weber, si tratterebbe di vendetta… o di giustizia? Più voci narranti si alternano nella scrittura di Jodi Picoult, come sempre magistrale nel riannodare il filo dei ricordi sepolti nel passato e delle emozioni che agitano il presente. E la chiave, ancora una volta, sta nella potenza della narrazione: «Un racconto può essere molto potente. Può cambiare il corso della storia. Può salvare una vita. Ma può anche essere un buco nero, o le sabbie mobili, in cui si rimane impantanati, incapaci di scrivere per liberarsi». Sta a noi, alla nostra coscienza, scegliere la strada da prendere.
L'autrice:
«Questo mio libro è veramente diverso da tutti gli altri che ho scritto. ci ho messo tutta me stessa.» Un romanzo unico, l’autrice spiega perché:
So che ci sono milioni di libri sull’Olocausto, ma come figlia di genitori ebrei e come scrittrice, credo di avere il dovere di dare voce a tante storie, storie che ancora aspettano una voce, e lo faccio nel modo che mi riesce meglio.
Un terzo del romanzo si svolge più di settant’anni fa. Lo spunto mi è venuto dalla lettura di Il girasole di Simon Wiesenthal, nel quale l’autore racconta la sua prigionia in un campo di concentramento e di quando fu portato al cospetto di un nazista in punto di morte che voleva confessare le atrocità commesse e ottenere il perdono da un ebreo. Il dilemma etico che ha dovuto affrontare Wiesenthal è stato oggetto di innumerevoli analisi filosofiche e morali sulle dinamiche esistenti tra le vittime del genocidio e i carnefici, e mi ha fatto pensare a cosa sarebbe successo se la stessa richiesta di perdono venisse fatta molti decenni dopo alla nipote di una vittima. Per scriverlo non solo ho letto centinaia di testimonianze, ma ho personalmente intervistato i sopravvissuti o i loro figli e nipoti. Ho ascoltato storie terribili, come quella del piccolo Bernie che si è fatto promettere dalla madre che gli avrebbero sparato nel petto e non in testa… Vi immaginate come si sente una madre che deve fare una promessa simile? O di Gerda, sopravvissuta alle marce della morte solo perché il padre era riuscito a dirle, prima che li prendessero, di non mettersi le scarpe normali ma gli scarponi da montagna. O Mania, scampata alle selezioni perché parlava il tedesco ed era incappata in un ufficiale nazista che tentava di proteggere gli ebrei che lavoravano per lui…