Antidoti letterari

Creato il 21 gennaio 2015 da Chiarac @claire_com_

Ogni volta che ho in mente di scrivere di un libro o di un autore arabo, mi faccio alcune domande: come mi comporterei se, invece di fare divulgazione di letteratura araba, mi occupassi di letteratura norvegese, giapponese, o brasiliana (per dirne tre a caso)? Come vi parlerei degli autori di questi paesi? Come vi descriverei i loro libri? Quali parole sceglierei per raccontare i festival culturali e letterari che si svolgono a San Paolo, Tokyo o ad Oslo?

Se io fossi una studiosa di letteratura giapponese, in che termini vi porrei il rapporto tra questa letteratura e i lettori italiani? Se io fossi una appassionata di letteratura brasiliana, come vi racconterei le ultime uscite pubblicate dagli editori brasiliani? Se io fossi una lettrice di letteratura norvegese, quali libri e perchè proprio quelli, vi consiglierei?

Queste domande, sappiatelo voi che mi leggete, me le faccio quasi ogni giorno da quando ho aperto questo blog. No, anzi, da prima; probabilmente da quando ho scritto la mia primissima recensione, forse si era nel lontano 2009.

Perchè, sappiatelo voi che mi leggete, chi scrive di letterature, politiche e culture arabe (un contenitore semantico che racchiude universi di senso multiformi) oggi – e da un bel po’ in realtà – quasi sempre, quando parla di quello di cui si occupa, quando gli capita di parlarne in pubblico, sui media o su Facebook, prima di arrivare al cuore del discorso è costretto a fare una premessa.

Ogni volta, è necessario prima decostruire i discorsi che, già pronti e preconfezionati, giacciono sul tavolo immaginato di una conversazione tra noi e chi ci ascolta, o con noi interloquisce. Ogni volta, dobbiamo demistificare i pregiudizi, la mala informazione e lo stereotipo: questi convitati di pietra sono i nostri più pericolosi nemici.

Nel suo meraviglioso saggio, dal titolo L’infelicità araba, il saggista, intellettuale, storico, politico libanese Samir Kassir (ucciso in un attentato a Beirut nel 2005 per mano siriana), si chiedeva e ci chiedeva, con dolore e speranza allo stesso tempo: “Allo sguardo sull’Altro, a quello, come si sfugge? Come evitare di confrontarsi con ciò che rivela?”. Dove l’Altro era il mondo arabo e lo sguardo era il nostro di occidentali.

Allo sguardo di chi pensa di sapere tutto di te e ti giudica sulla base di sue idee, che possono essere di volta in volta ipocrite, in malafede e preconcette, come si sfugge?

Ebbene, io sono convinta che quello sguardo si possa correggere, o almeno ci si possa provare, attraverso un libro.

La letteratura, io credo, costruisce ponti di dialogo, accomuna le esistenze e l’esistente. La letteratura, da ch’è mondo, ci racconta quello che la politica e la storia omettono, per calcolo politico o ipocrita dimenticanza. È vitale perchè umanizza i popoli e ci rassicura sulla bellezza del mondo.

Il libro che ho in mente io, a differenza di altri e altri, è un romanzo scritto da un autore arabo (possibilmente un buon romanzo e ben tradotto).

Perchè la letteratura araba, a mio parere, può essere una perfetta contro-narrazione, un antidoto portentoso a quella narrazione che quotidianamente ci parla di stato di guerra, di scontro di civiltà, di assedio della “nostra” civiltà da parte della “loro”.

Leggendo i romanzi arabi potremmo scoprire, ad esempio, che anche in Iraq si palpita d’amore allo stesso modo che qui. Che in Egitto, i ragazzi si vergognano allo stesso modo che qui, quando devono chiedere di uscire ad una ragazza. Che i bimbi di Fez giocano scalzi e vocianti nei vicoli della loro bella città proprio come da noi. Che in Siria si fa l’amore con la stessa passione che da noi. Che in Libano, i vicini sono gretti, invidiosi e meschini proprio come da noi. Che in Palestina, la mattina ci si alza e si guarda il sole “coltivando la speranza”* proprio come facciamo noi. E i morti, che sono ovunque uguali e meritano uguale dignità, si piangono esattamente allo stesso modo.

C’è un finissimo storico e intellettuale siriano che vive in Francia e che si chiama Farouk Mardam-Bey, che ha detto queste e altre cose molto meglio di me. È il curatore di una collana (che fa parte della casa editrice francese Actes Sud) dedicata alla letteratura araba contemporanea in traduzione francese, ed è impegnato da anni nell’impresa di “banalizzare la letteratura araba e il mondo arabo”.

Banalizzare qui non significa abbassare il livello dei discorsi, scadere nell’appiattimento della dicotomia noi vs loro. Vuol dire: “Liberarlo (il mondo arabo, ndr) dall’esotismo e far capire che esso partecipa – a pieno titolo – all’avventura della modernità”. Perchè del mondo arabo si ha un’immagine “deformata”, ma questo “non vuol dire che esso sia del tutto bello, puro e innocente. Vuol dire che non corrisponde ai cliché”.

E per ritornare alla letteratura, banalizzarla vuol dire semplicemente parlarne come se si parlasse di letteratura norvegese, brasiliana o giapponese, per tornare agli esempi di prima.

“La letteratura meglio di altri – scrive ancora Mardam-Bey – permette di comprendere la crisi multiforme nella quale si dibattono gli Arabi, di cui offre un’immagine più sfumata, di cui svela gli aspetti più intimi, le relazioni sociali. E oltretutto, regala una fortissimo piacere della lettura”.

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* Il riferimento è all’incipit di Stato d’assedio, di Mahmoud Darwish (trad. e cura di W. Dahmash, Edizioni Q, Roma 2014).


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