di Marilisa Dones
In questi giorni, a Palermo, in vista del Sicilia Pride 2011 si parla molto di “queer”. Ho riflettuto molto sulla valenza del termine che abbraccia tante realtà e non separa. Un termine, quindi, che definisce ma include in sé più realtà. Che unisce e non separa, vale la pena ripeterlo in un periodo come questo.
Nata agli albori degli anni Novanta, la teoria “queer” mette in discussione la naturalità non solo dell’identità sessuale, ma anche dell’identità di genere di ogni individuo: secondo tale concezione, queste ultime costituiscono unicamente costruzioni sociali e proprio per tale ragione non è corretto etichettare in maniera sterile l’individuo con termini generici quali “eterosessuale”, “donna”, “gay”, “lesbica”, ecc. snaturandolo nella sua essenza. La forza della teoria o filosofia “queer” consiste nel fatto che si rifiuta di racchiudere in ripartizioni di genere la descrizione di una persona, afferendola ad una o più particolari categorie definite: la teoria queer, infatti, si sforza di comprendere qualsiasi attività o identità sessuale che ricada entro le categorie di normativo e deviante, respinge la creazione di categorie e gruppi artificiali e stabilite dal punto di vista sociale, che si fondano sulla contrapposizione tra chi condivide o meno un habitus mentale o vitae.
Nell’approfondire l’argomento mi sono tornati alla mente alcune riflessioni e studi fatti in merito a un grande personaggio tragico, Antigone e la sua valenza sociale e in particolare l’interpretazione della Butler che definisce proprio “queer” la soggettività della figlia di Edipo. Perché nel parlare di “queer” risalgo all’antichità? Attingo ad un personaggio antico perché amo mescolare l’antico con l’attualità e cercare delle similitudini e, perché no, anche delle spiegazioni.
Tengo a precisare che buona parte delle riflessioni qui riportate sono prese in prestito da un saggio di Francesca Brezzi, Antigone e la Philia. Le passioni tra etica e politica (Franco Angeli, Milano 2004, pp. 10-11) ad un articolo-recensione del saggio di J. Butler, La rivendicazione di Antigone. La parentela tra la vita e la morte (Bollati Boringhieri, Torino, 2003) di Gabriella Freccero. Tutti conoscono la storia di Antigone, figlia di Edipo nata da un incesto, che preferisce morire piuttosto che sottomettersi a un legge che prescinde il legame di sangue. Antigone, l’eroina che si oppone al potere di Creonte assumendone le stesse sembianze tramite un discorso retoricamente efficace che annulla le distanze tra legge antica e legge moderna e la espone alla violenza della maledizione di Edipo. Antigone che corre contro la propria morte, quasi come fosse affascinata da questa soluzione. Se, secondo Lacan, alla fine del dramma, non c’è catarsi alcuna e Antigone resta una sorta di rappresentazione irrisolta dell’essere umano, in bilico tra la vita e morte, invece, secondo la Butler, è proprio in virtù di tale posizione precaria (o posizione-limite, “queer”), che si può sentire inattaccabile ergendosi titanica contro Creonte e l’ordine costituito (contro il potere politico, maschile), ma che al medesimo tempo la confina al di fuori dall’ordine simbolico, alle sue estreme propaggini. L’amore per il fratello infatti non fa parte di ciò che può essere interpretato nell’ordine vigente e allo steso modo non lo è che i cittadini siano tutti diversi e non interscambiabili nel suo ordine (l’ordine delle leggi non scritte). Di qui lo scandalo e la minaccia per la comunità, che non può far altro che espellere un tale soggetto e consegnarlo sul piano individuale alle sue pulsioni di morte, facendo coincidere la vita con l’ordine simbolico dato.
Quello di Antigone è, dunque, un vero e proprio estremismo e la Butler nel suo saggio, La rivendicazione di Antigone, rettifica sia l’interpretazione hegeliana sia quella di Lacan, che collocava Antigone sul limite estremo di un desiderio che non può dirsi senza tradirsi e senza tradire le strutture simboliche della parentela. Secondo lo psicoanalista francese, infatti, quello di Antigone rappresenta lo sforzo supremo di sfuggire alle maglie di una forza coercitiva che agisce fin dall’inizio sull’individuo, spingendolo ad assumere precise identità, mentre essa non vuole rinunciare ai suoi attaccamenti originari pre-edipici: il prezzo da pagare è la morte civica, cui lei preferisce ancora la, tutto sommato consolante, morte naturale e il ricongiungimento coi suoi. Ma la vera forza di Antigone, dice la Butler, sta nella sua capacità di “deformare”: essa deforma non solo le norme della sovranità politica, ma anche quelle del genere sessuale e quelle della famiglia. Anzi, Antigone è l’eroina della parentela in crisi, della sessualità incerta, delle famiglie di fatto “in cui il posto del padre è disperso, quello della madre occupato da diverse figure” (J. Butler). Antigone insomma non sfida la legge, è semplicemente “altrove” rispetto a quella legge, non si oppone al potere ma chiede e insieme fornisce una prospettiva critica a chi delimita per ragioni sociali o d’igiene simbolica i criteri di legittimità per le relazioni umane, per gli amori, i dolori, le perdite riconoscibili.
Dunque Antigone come simbolo queer, concezione che unisce e non divide, che deforma e ricolloca le identità non confinandole o ghettizzandole, ma aprendole al molteplice. Perché la realtà, la storia, la verità, l’arte, la musica, la letteratura, le interpretazioni, i gesti, le parole, gli affetti sono suscettibili indistintamente di molteplici interpretazioni non catalogabili entro stringati confini, che nel momento stesso in cui vengono etichettati entro una categoria perderebbero l’essenza stessa dell’essere. Queer che abbraccia il molteplice e che si offre come chiave interpretativa “altra” rispetto alla delimitazione limitante frutto del sociale.