ANTONELLA MONZONI – Il ciclo della vita nei Reportages

Creato il 30 novembre 2012 da Wsf

Il tema del sopravvivere è in bianco e nero, ha bisogno della purezza dell’assoluto. Il colore non si vivifica nei toni timbrici ma viene asservito al viaggio umano che la foto sta raccontando. Il viaggio, il reportage. l reportage come luogo del mondo. Antonella Monzoni, ha fatto del suo mondo il luogo del riporto devoto dell’umano. I luoghi sono ovunque nella storia e nella terra. La sua fotografia si  accompagna prevalentemente con la purezza\crudezza del bianco e nero, nell’ottica non necessariamente a grandangolo, come a voler escludere l’infinito dalla foto per riempirla del suo contrario, il vissuto. Alcune si sgranano, e la vita comincia a scorrerci dentro, infinita.

Antonella Monzoni, la costruzione dei un reportage è lunga, pone il fotografo a servizio del mondo o della storia che vuole “estendere” in fotografia. (Ogni volta) come nasce il tuo reportage?

Nel reportage che amo fare la cosa più importante è il contatto, l’esserci. Da anni progetto un argomento all’anno da poter aggiungere alla mia collana di perle, alla mia “raccolta” di rituali, religiosi e non, sperando di farne, in futuro, una specifica pubblicazione. Sono andata in India per fotografare il Kumbha Mela, in Etiopia per raccontare la Pasqua copta-ortodossa che si vive a Lalibela, in Messico per vivere nei loro cimiteri, durante le veglie notturne dei giorni dei morti, in Birmania con la tribù animista dei Denti Neri per la festa del maiale, in Ucraina per due giorni di festeggiamenti di un matrimonio, in Armenia per documentare l’incredibile commemorazione del genocidio dimenticato, che si svolge ogni 24 aprile, un evento davvero unico …

Quasi sempre ho un contatto sul posto, conosciuto prima in Italia come nel caso dell’Ucraina e della Russia, o conosciuto durante il primo viaggio come in Armenia, o trovato al momento come nel caso di Madame (era il suo medico). Oppure il progetto prevede semplicemente trasferte in posti ben definiti, dove – si sa – si svolgono eventi e rituali. E poi ci vuole sempre un po’ di fortuna, ma soprattutto “eyes wide shut”: tre parole kubrickiane dalla difficoltosa traduzione (occhi apertamente chiusi?) nelle quali spesso ho trovato il mio inizio.

Eyes: gli occhi, la capacità del guardare, come magia, come veicolo.

Wide shut: un aggettivo solitamente a braccetto con l’opposto di chiuso (quindi: open).

A volte le cose sembrano non esserci, sembrano assenti ed invece ci sono, basta saperle “vedere”, serve solo lasciarsi andare al loro rivelarsi.

Dentro le tue foto, a volte, si assottiglia il mondo dei vivi con quello dei morti. Le maschere dei bimbi ad Halloween, la festa dei morti in Messico,  i tumuli sulle colline armene,  la veglia pasquale della città santa di Laibela. E’ un colloquio “intimo” fra chi resta e chi se ne andato, simile o diverso, a seconda della culture che hai messo nelle foto. E’ un tema “gravoso” eppure tu spesso lo scegli.

E’ il trapasso, è il mistero, il rivolgere questioni per  un’altra possible vita …

Sono attratta dalla spiritualità e ho la certezza che se qualcosa di misterioso accade, anche un semplice incontro,  non è mai un caso.

In effetti diversi miei reportage sviluppano questo tema e all’interno di tanti altri c’è quasi sempre lo scatto che riporta questa ricerca di altra dimensione … Difficile rispondere perchè lo faccio …

C’è un confine fra empatia e astrazione quando si fotografa? Ci sono foto fatte con più “anima” che tecnica che alla fine magari vengono scartate dal portfolio oppure l’esatto contrario, sono quelle che si mettono in apertura? Quando sai che è finito il “viaggio”, che è ora di mettersi a lavorare sulla stampa perché è stato tutto raccontato?

La fotografia che conosco non è proprio “tecnica”, durante lo scatto la mia preoccupazione è capire di più di me, capire in che direzione voglio andare. Un aspetto fondamentale che mi ha sempre colpito è la fiducia reciproca che si innesca nell’atto fotografico. Le mie fotografie di reportage non sono altro che fotografie d’incontro, di totale accettazione, sono tecnicamente gesti molto semplici, generati soprattutto dalla motivazione e dall’urgenza di comunicare. Quindi molta più anima che tecnica. Impossibile dire “ho finito”, non avviene mai, hai sempre nella mente altre immagini, altre situazioni, scatti che hai perso.

Nuovi progetti. O anche lavori che sono pronti per “venire alla luce”.

L’Iran. Ho iniziato nel 2011 e sono tornata nel 2012. Un paese incredibilmente interessante, ricco di fortissime contraddizioni dove il fascino della storia, dell’ambiente sociale e della modernità prorompente convivono con le rigidità di un governo che limita nei costumi soprattutto le donne. Chi gestisce il potere non ha alcuna capacità di comprendere le esigenze della stragrande maggioranza della popolazione, dove oltre il 70% ha meno di 25 anni, una gioventù alla quale si impedisce di sognare e le cui armi sono jeans ed internet.

Nemmeno i riformisti si oppongono al chador, alle retate dei Basiji contro le giovani non rigorosamente conciate da devote musulmane, al puritanesimo e all’intolleranza. Si vieta a donne e uomini senza legami di sangue o non sposati di stare in pubblico, si continua la separazione tra i sessi nei luoghi pubblici, si vigila con millimetrica attenzione sull’abbigliamento femminile, sulle acconciature, sul trucco, sulla musica che si ascolta e i libri che si leggono.

Vestendo il chador ho cercato di cogliere la solennità dei riti nelle moschee ma anche di raccogliere confidenzialmente i comportamenti liberatori e il pensiero delle giovani donne che incontravo.

E,  solo alla fine, ti chiediamo, se può avere un significato differente nel racconto fotografico, esser donna, avere lo sguardo di femmina su un mondo da raccontare.

Non credo in quella enorme diversità che spesso si cerca di raccontare tra sguardo femminile e maschile … A mio avviso si può parlare di diverse sensibilità, di racconti fotografici espressi in maniere differenti e soprattutto di approccio diverso durante l’incontro con “l’altro”. Conosco tante fotografie realizzate da uomini sature di visioni femminili… e le adoro.

http://www.antonellamonzoni.it/ 

ANTONELLA MONZONI

Antonella Monzoni vive a Modena. Pratica una fotografia di reportage profondamente umanista, concentrata sulla assimilazione culturale del ricordo, sui simboli e sui luoghi della memoria come tracce di appartenenza, come Madame (Premio Mario Giacomelli 2007 e Selezione PhotoEspana-Descubrimientos 2008), Somewhere in Russia (Premio Chatwin per la fotografia 2007), Silent Beauty (Menzione d’onore International Photography Awards 2008).

Nel 2009 con il reportage Ferita Armena riceve la Menzione Speciale Amnesty International dei Festival dei Diritti, è finalista al Premio Amilcare Ponchielli ed è selezionata al Visa pour l’Image di Perpignan. Sempre nel 2009 vince il Best Photographer Award al Photovernissage, di San Pietroburgo e nel 2010 è Autore dell’Anno FIAF.

Dal 2011 fa parte del Collettivo Synap(see).

Recentemente ha ricevuto il primo premio al Vienna International Photo Awards 2012.

I suoi libri: ”Benedic Anima Mea”, indagine sulle liturgie dei frati dell’Abbazia di Sant’Antimo (Siena), 2004; “Lalibela”, reportage delle cerimonie notturne ortodosse dalla capitale religiosa dell’Etiopia, 2005; “Il delicato sentimento del vedere”, monografia FIAF 2010 e nel 2011 pubblica “Madame” che riceve una menzione speciale dalla giuria del Premio Bastianelli 2012.

Ha esposto in mostre personali e collettive, sia in Italia che all’estero.

Opere di Antonella Monzoni fanno parte della Collezione fotografica della Galleria Civica di Modena.

www.antonellamonzoni.it


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