Antonio Baldini, Firenze – Sbornia d’ incauto minorenne

Creato il 28 novembre 2013 da Paolorossi

Firenze – Galleria degli Uffizi

Una delle prime volte che andai a Firenze avevo sedici anni ed una invidiabile voglia di apprendere. Le arti belle erano allora la mia passione. Arrivai di domenica perchè la domenica si poteva entrare nelle gallerie senza pagare, e dieci minuti prima dell’apertura ero avanti alla porta degli Uffizi. Il cuore mi rintoccava a gran colpi nel petto. Fatte le scale a quattro a quattro e arrivato in cima con la lingua di fuori, cominciai dalla prima sala a considerare tutti i quadri uno per uno : e così una sala dopo l’altra ; e non ci fu una tela, una tavola, una stampa che sfuggisse al mio esame. Finito di vedere gli Uffizi, infilai di corsa il corridoio dei ritratti che portava a Pitti ; e anche a Pitti vidi tutto quel che e’ è da vedere, tela per tela, nome per nome.

Firenze – Galleria degli Uffizi

Da Pitti, ripassato l’ Arno, arrivai di galoppo al Bargello, dal Bargello all’ Accademia, dall’ Accademia ai chiostri di San Marco, da San Marco a Sant’ Apollonia, da Sant’ Apollonia a Palazzo Riccardi, fu tutto un vedere e un correre, diligente e affannoso. Mi domando, e non son buono a trovare una risposta, come mi fece la testa a non saltar in aria. Quando dico d’aver visto una per una tele stampe sculture majoliche arazzi e vetrine di quasi tutte le gallerie di Firenze in poco meno di sei ore intendo dire che, sia pure una frazione di secondo, mi fermai avanti a ogni tela stampa eccetera : e il più strano si è che quelle prime impressioni durano ancora oggi impresse nella mia memoria colla massima evidenza di colori e di segni e che per quante volte sia poi tornato a rivedere con altra calma e altro studio quelle opere medesime, contro quelle prime impressioni nessun altra ce l’ha mai potuto.

Firenze – Galleria degli Uffizi

Ma insomma immaginatevi voi com’io mi fossi ridotto al momento di venire spinto verso l’uscio dell’ultima galleria dal suono gaio delle chiavi del custode. Uscendo in istrada, ecco che vedevo barbagliare e guizzare colori dappertutto come una rete di fuochi sottili, e dietro quelli vedevo livida la terra e buio il cielo. Dovunque mettevo gli occhi rivedevo le fiammelle che il Beato Angelico mette sulla testa dei santi Padri e Martiri, e marmi di Donatello accampati sui marciapiedi mi sbarravano il passo. Come barcollando mi strascinai all’alberghetto dov’ero sceso in via Panzani. Le ginocchia mi traballavano, i piedi mi scoppiavano. La stanza dove m’avevan messo era larga e lunga due palmi appena oltre la misura del lettuccio, prendeva luce assai scarsa da una finestra aperta sopra un malinconicissimo cortile.Mi levai le scarpe e mi buttai così sfinito sopra il letto. Non potevo tenere gli occhi né aperti né chiusi, tante le fiamme che dentro continuavano a lingueggiare.
Sentivo un atroce tormento di sete, di stanchezza.
Mi sentivo arido come creta al sollione. Magari avessi potuto piangere per inumidire e sciogliere qualcosa dentro di me, ma assolutamente non potevo. Feci la commedia del pianto con me stesso: cercai d’intenerirmi sulla miseria di quell’alloggio, sulla lontananza da casa mia, cercai di figurarmi ostacoli insormontabili al ritorno, volli immaginarmi svaligiato dai ladri, ora che mi fossi addormentato in quell’albergo, e poi malmenato, e poi tradotto in questura — giacché la fantasia ribolliva come mosto : ma la sofferenza non poteva vincere la mia sorda stanchezza più d’un tanto, e quel tanto non mi bastava per sentirmi vivo quel poco appena che mi bisognava. Come fossi un’anima staccata infamemente dal suo corpo non mi sentivo più né piedi né ventre né braccia né spalle : bensì e piedi e braccia e spalle acutamente mi doloravano ; ma seguitavo a patirne senza trovarci un appoggio concreto. La vertigine mi travagliava a spirale dal capo ai piedi e poi, risalendo, dai piedi alle spalle, empiendomi le orecchie di boati. A un certo momento tutta la stanza, la finestra e quel che c’era fuori della finestra chetamente si mise a tremare e a ballare un’elastica danza di terremoto: e a tratti ciascun aspetto s’andava velando come se gli occhi m’andassero in agonia ; poi d’un tratto ogni cosa riacquistava una tremenda lucidità e mi assaltava d’ogni parte, dalle pareti e dalla finestra aperta. Allora mi sentivo rifluire all’indietro con tutto il lettuccio e tutta la stanza come ogni cosa fosse presa dentro le corde d’un’altalena tratta ad un’altezza vertiginosa. Avrò forse gridato, tanta era in me queir impressione di terrore ; ma in tutto il casamento non si sentiva volare una mosca. Avevo abusato della vista mia, del povero mio cervello. Centinaia e centinaia d’impressioni, una staccata dall’altra mi forzavano la memoria. E questo cervello non intendeva di perderne pur una e ciascuna impressione intendeva farci dentro suo gran prò e sua gran festa : ma chi ne andava di mezzo era quel povero me di sedici anni che s’era scordato di fare colazione. Ed ecco, lentamente, la luce del cortile veniva meno, promettendomi quale’ombra di ristoro. Con quella, mi pareva che lo stesso dolore fisico mi sottraesse silenziosamente le membra e me le portasse a dolere lontane. Così qualche guadagno di dolcezza s’era pur fatto e l’ombra m’aggrediva con una pur dolce violenza ; quando si scaricò dai tetti un suono di campane che fece gemere e spasimare i miei poveri spiriti sbaragliandone quelle prime larve di sonno. Dal cervello ora me se ne fuggiva una per una l’impressione di ciascuna cosa vista, sibilando e splendendo. Perdevo i colori uno a uno, che mi s’erano nella giornata aggomitolati dentr’al cervello. Però sentivo, con una malinconica soddisfazione, e strana riconoscenza di scampato pericolo, che così ritoccavo terra. Avevo l’impressione di sprofondare piacevolmente con tutto l’albergo, e sprofondando di ritrovare di momento in momento una nuova qualità fìsica, un nuovo peso, un nuovo accordo perduto. Rientravo nel mio corpo: ma m’ero sudato via i colori.
Attorno all’anima finalmente si rappiccavano le membra secondo l’usata architettura : i piedi in fondo al letto, la testa sul cuscino, le mani sulla coperta. Con uno sforzo incredibile sul gomito appena risaldato levai mezzo busto sul letto e gli occhi m’andarono intorno. Meraviglioso a credersi, le cose non avevano più colore : e queste cose pareva che fossero tutte straordinariemente più vicine, con un’aria d’ ultima miseria, come smesse e spremute : non mettevano più voglia di toccarle. Poi m’affondai in un dolce sonno reale di pochi minuti, dal quale risorsi limpido e leggero con la felice intenzione di correre alla prima osteria.

Accidenti alla Storia dell’Arte, che fame!

Firenze – Galleria degli Uffizi – La Primavera di Botticelli

( Antonio Baldini, Sbornia d’un incauto minorenne tratto da “Salti di gomitolo” , pag. 95/99 – Vallecchi, 1920 )

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