Antonio D’Agostino – Nelle crepe degli specchi

Creato il 03 aprile 2014 da Carusopascoski

le poche incisioni sul muro lasciano pensare
Che nei pressi di quel chiasso di preghiera
Qualche forma di vita
Ribellatasi ad un destino senza occhi e senza voce
Tentato abbia di sondare il sonno
Nel percuotere il muro
Ha lascito striando
Le mani come unico approdo

***

la pianura dissonante
irta di spine
di fughe nel vago
nessun nutrimento trattiene
-nella sequenza di infortuni-
il camminatore spazientito
che non ritorna più nella propria casa
casa persa nel buio senza notte , senza nulla
il paese delle ricadute nel sonno
dei sentieri preclusi all’anima
dove tutti sono in fuga da tutti
nel ristagno del salutarsi per strada
residuo di ritualità non più rintracciate
ormai difetto del vivere la rendita
zoppicante e ornata abitudine
cerimonia piccola
devastante come una fucilata nel nulla

tutto resta appesantito
da una semina di grano oscuro
rilascio dell’impotenza
alla mano mendicante

sonno retorico del potere
anche qui
in questo rintanarsi spigoloso
degli abitatori apparenti
residuo mesto e improponibile

qui l’uomo si è sottratto alle cose
alla terra
si è diffusa nell’aria un’ opinione
che per tutti vale
a trattenere un nome
in ciò che non ha più sostanza,
segno di pertinenza,
pausa

ci si esercita a produrre insediamenti
contrade contratte nella preghiera delinquenziale
costipate nel solco opaco
di mani giunte e incancrenite
nell’estenuante rituale del tempo
che non dice più nulla di niente
non apre corrispondenze col sacro
si eclissa nell’aria ovattata di salmi
un mondo dove tutto è sfinito
sede di reticenza , del perso pudore
e della perduta miseria.

noi non più custodi
della finitezza e del lampo
dell’indovino che inaugurava il campo
la casa non è più materia del necessario
vani e vani per indeboliti fantasmi
litigiosi vicini di casa
che rivendicano distanza
col lamento di chi cerca ripari ulteriori e ultimati
incuranti del pioppo che muore in solitudine
tra un muro , un garage,
una luce intermittente
e un rudere da rampicanti invaso,
stipato in uno spazio distante
straniato
manufatto non più evocante
dai suoi acuti spiriti evacuato.

***

scendono dalle proprie case
nello stesso momento
nel deserto la sabbia si solleva
facendo saltellare nell’aria
piccoli insetti nomadi
giunti al garage aprono la portiera
su di un isola nello stesso momento
esce dal sonno la testuggine
a piccoli passi suggella
il tracciato del rischio e della fortuna
attraversano la strada per conquistare l’ufficio
nel cratere montuoso l’incendio di magma e pietre
che uscendo segna relitti nel fiume
di pietra le radici
lascia il fuoco nella iride dell’abitante solo
negli uffici fanno sempre le stesse cose
nella piana ancora verde il contadino sterra
una ruota gira enorme
Dio è scomparso dalle mappe.

***

non è più il carro a maciullare l’erba
sono fermi i denti della macina
l’asse esposto nel grasso è bloccato

l’edificio accoglie il carico di nebbia
si addensa la forma del campo
sul foglio dei catasti nel largo

lo spazio si riapre alle semine
per ogni solco una scaglia di silenzio
la mano che depone sabbia

il rito è la frusta sui nervi delle piante
una schiena che si incurva ai principi
del torcere e del liberare i cocci

sbucano dalla parete i resti di una festa
antica storpiatura delle usanze
la trappola minerale dei calcinacci

la presa poderosa del ramo storto
la ruggine dell’orto prende a schiaffi la casa
dal camino salgono le ceneri

sento le voci uscire dal pagliaio
perse come aghi a ricucire la trama
del racconto che non si raccoglie

domani il giorno si rende in fotocopie
gli sbiaditi prendono tutto per buono
nell’apparenza il vero li assiste da lontano.

***

Chi porta il peso di questa assenza
le rondini di confine tremano sul ramo
la solitudine si contorce nell’aria
impigliate ai fili le foglie non cadono
più non germina il papavero
il neon della casa bassa perde luce
nei campi ridotti a discarica
poche anime a rovistare tra i sassi
la nuvola scende ad altezza di mano
il bambino curioso entra nel cirro
chiama al gioco i compagni
figurando una scala riportano
l’elemento fugace al suo posto
la pioggia cade dal cirro risalente
forma un pantano di luce.

***

nel cortile le pietre
nascondono la faccia
al passaggio dell’ospite
scolpito d’aria
la pianta rampicante
invade il tufo
nella cantina il buio
si addensa di notturni spettri
resti dell’aurora
nelle crepe degli specchi.

Carlo Mattioli, “Papaveri ai bordi della Versiliana”, 1974-75


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