Antonio Devicienti su un libro di Christian Tito

Da Narcyso

Christian Tito, TUTTI QUESTI OSSICINI NEL PIATTO, ZONA

di Antonio Devicienti

I termini farmacia e farmacista sono da ricondurre, è noto, al greco phàrmakon che, però, ha una doppia accezione: quella di veleno e quella, poi transitata nell’italiano, di farmaco, cioè preparato per curare un male, una malattia. Sono da sempre affascinato dalla scienza dell’etimologia e dalle verità cui essa può avvicinare: non lo scrivo qui per sminuire o limitare la poesia di Christian e dei suoi Ossicini, ma al contrario, per lodarne ed esaltarne il portato stilistico e contenutistico e affermo, allora, che il fatto che Christian sia farmacista di professione e che alcune delle liriche della silloge siano ambientate in farmacia dona al libro un’originalità ed un interesse poco comuni. Confesso che non riesco a liberarmi dal pensiero della tabaccheria di Pessoa, né da quello del lamento del gabelliere di Raffaele Carrieri e credo di sapere perché: nella tabaccheria pessoana, ormai vero e proprio archetipo della riflessione contemporanea sull’esistere, un preciso luogo della città così fortemente legato al commercio (sia economico che umano) sa generare poesia; nel caso di Carrieri (tra l’altro concittadino di Christian) un mestiere preciso è anch’esso generatore di riflessione poetica ed è connesso ad un sentimento d’inquietudine e di attesa che riconosco negli Ossicini. Posso citare anche Giuseppe Bonaviri e la sua professione di medico (quanto presente in tutta la sua insigne opera!), quella di Mario Tobino e di Marco Ercolani (entrambi psichiatri) ed altri ancora. Nella sua originalità, dunque, il libro di Tito si pone in un nobile alveo nel quale inestricabile (per fortuna) risulta il rapporto tra esistere, professione esercitata e poesia. La raccolta è architettata in quattro parti ed i relativi titoli forniscono già un’indicazione di rotta: scricchiolii, naufragio, terra, terre in moto dicono chiaramente di una ricerca poetico-esistenziale inquieta e sensibile, di una sorta di quête, ma modernissima, in quanto quasi del tutto (si badi: non del tutto, ma quasi del tutto) priva di orizzonte metafisico e consapevole di dover sempre ricominciare, dubbiosa di approdare mai alla terraferma per rimanerci, sicura e appagata.

A pagina 16 trovo scritto:

Verità! Ecco ciò di cui ho (c’è!) bisogno.

Abbiamo così immediato un assaggio di una caratteristica stilistica della silloge che, in più occasioni, tenderà all’aforisma o all’icasticità espressiva fondati spesso su significativi paradossi (e m’assesto / in un nuovo sprofondare a pag. 37, l’umano / tentare a pag. 71, a essere così / splendidamente vivi / ci si sente spesso / tra le braccia della morte a pag. 91, ad esempio), ma, come dicevo poc’anzi, senza pretese di scoprire “la” verità o di insegnare qualcosa. La mia citazione evidenzia infatti un atteggiamento da parte dell’autore che costituisce, a mio modo di vedere, una delle impostazioni fondamentali della raccolta: c’è un imperativo etico che s’impone al poeta (la verità), che s’impone, appunto, al soggetto (ho), ma, con repentina virata o correzione di rotta, ecco il c’è che le parentesi esaltano e sottolineano; sì, è l’ardua questione dell’io, del rapporto tra io e mondo, del dire “io” in poesia e delle valenze dell’esperienza individuale, è lo spinoso problema del poeta che dice “io” in una realtà (sociale, economica, politica, culturale e storica) nella quale il poeta non è più da tempo la voce che parla anche per la comunità e che veicola valori ed insegnamenti condivisi. E Christian che è e vuol essere poeta questo lo sa molto bene: non vuol cadere nel soggettivismo più banale, ma sa di essere uno nella moltitudine, è un essere umano che si pone precisi interrogativi, ma vuol superare l’orizzonte individuale. Forse è questo uno dei motivi per cui la sua poesia cerca il dialogo, tenta di uscire da se stessa e di diventare colloquio:

PAM

Mi disse:

Fai tante cose…”.

Lo presi come un detto di paese.

Sbagliai…

Amo tante cose

ma avrei bisogno di una dozzina di vite

per coltivare ogni mio amore

e in questa

un altro bisogno vestito da orco

se ne inghiotte un bel trancio

(prima o poi certamente ucciderò l’orco)

mi chiedevo:

sarò forse dispersivo?”

ma Nico che conosce i matti mi disse

che non è folle suonare la chitarra col pennello

né usare la cinepresa per scrivere poesie

né tentare di fotografare la propria forma

e vederla poi sparire ogni giorno dalla pellicola.

Pamela mi disse:

fai tante cose…”

lo presi come un detto di paese

sbagliai:

era un messaggio del cielo

che conosce i miei bisogni

e vuole che uccida gli orchi (pag. 17).

Come fosse una dichiarazione di poetica, ma anche un’onesta riflessione su se stesso, questo testo quasi proemiale presenta una persona dai molteplici interessi, prospettando il fatto che la poesia non si esaurisce nella scrittura in versi, ma possiede una sua complessità espressiva che rompe le forme tradizionali o codificate e poi rileggiamo quel passaggio indimenticabile: non è folle suonare la chitarra col pennello / né usare la cinepresa per scrivere poesie / né tentare di fotografare la propria forma / e vederla poi sparire ogni giorno dalla pellicola. Nella necessità di uccidere gli orchi la poesia sa trovare numerosi modi d’espressione ed ha questa tensione agonistica che la strappa via da sdilinquimenti e intellettualismi, egocentrismi e narcisismi.

Nella tendenza all’aforisma o al testo lapidario che riemerge nei versi seguenti riconosciamo infatti il medesimo tema della riflessione sull’io, ma per tentare di allontanarsi dal rischio del solipsismo, giungendo ad una conclusione tutta da commentare:

SOLO IN COMPAGNIA

Sto bene

solo

in compagnia

d’altre

solitudini (pag. 22)

e le altre solitudini non appartengono, mi vien fatto d’interpretare, a persone che vogliono essere sole o che, sprezzando gli altri, scelgono la solitudine, bensì ad esseri umani che posseggono consapevolezza di una solitudine connaturata all’esistere, di una solitudine cioè che se da un lato può essere dolorosa, dall’altro conduce ad una consapevolezza di sé e degli altri e della realtà che spinge ad aprirsi, a cercare queste altre “solitudini”, a cercare il dialogo, pur difficile, magari timido all’inizio, o attento a non ferire. Non può essere un caso, sono sicuro che non sia un caso che la prefazione agli Ossicini (bellissima, penetrante, arguta e partecipata, a sua volta un segno di alta umanità e poesia) sia opera di Nicola Vacca, persona e poeta che in un libro come Mattanza dell’incanto (Marco Saya Edizioni, Milano, 2013) tematizza con un dolore radicale, ma anche con un’altrettanto radicale ribellione proprio l’essere e il sentirsi soli di fronte alla deriva sociale, politica e storica che stiamo esperendo: anche in questo caso la solitudine riconosciuta e conclamata significa consapevolezza e verbalizzazione di una situazione nella quale si sta davanti alla negatività sociale ed esistenziale, ma non per subirla o riconoscerla come ineluttabile, al contrario per combatterla, denunciarla ed opporvisi e sempre cercando di non ferire l’altro.

Ed ecco uno dei testi il cui sfondo significativo e pregnante è la farmacia:

FARMACIA 48.

(ELA RAP)

Ela

sta

sul bordo di strada

di questa città

e dopo che molti

entrano in lei

lei entra da me

a chieder le pillole

che salvano i suoi

che stanno di là

ad est della costa

di questa sua vita

vissuta a metà

tra il sogno d’un meglio

di uno spiraglio

e la cruda realtà

e pensan che lei

sia venuta fin qua

in cerca d’amore

e di dignità

e non sanno che aspetta

senza speranza

senza calore

senza rumore

sul bordo di strada

di questa città (pag. 23).

Pietà, solidarietà, comprensione: assieme alle pillole che salvano i suoi Ela riceve dal farmacista qualcosa che forse la ragazza neppure si aspetterebbe in una città (è Milano, nel libro di Christian, metafora della metropoli occidentale) sorda e cieca, indifferente. E c’è una sorta di “andirivieni” in questo libro, per cui si trascorre da testi che oggettivizzano la situazione delle persone nella metropoli a testi che continuano a riflettere sul tema dell’io soggettivo e lirico, come l’interessante testo che propongo qui alla lettura:

POESIA SCRITTA DA ME

Questa?

Questa è scritta da me

nel senso che a scriverla

sono proprio io

(qual è l’essenza precisa dell’io?)

molte se ne scrivono

non senza fatica

(molti managers avranno da obiettare sulla fatica dei poeti

io potrei controbiettare

ma non controbietto

sono un poeta atipico:

gran lavoratore…)

ma rileggendole si è un po’ rosi dal dubbio:

qual è il fantasma che si aggira in questi versi?

Fernando? Eugenio? Emily?

(o voi, amati fantasmi, non fatevi scrupoli:

disturbate vi prego le mie notti!)

eppure non vedo spiriti né possessioni questa volta

forse è quella buona:

scritta da me

nel senso che a scriverla sono proprio io…

per quanto ne so di me

per quanto ne so sull’io (pag. 27).

p.s. È doveroso smentire le mie affermazioni (anche se

questa ammissione mi costa, ancora, molta fatica). Si tratta

anche in questo caso di un’intrusione esogena nel mio animo

e nel mio stile. Sono costretto a prenderne atto a causa della

gran mole di parentesi che contraddistingue questo scritto.

Esse hanno destato in me dapprima un piccolo sospetto, poi,

l’amara, ennesima constatazione. Si dà il caso che anche il

libro sulle cui ultime pagine bianche ora scrivo la “poesia scritta

da me”sia pieno di parentesi e di domande. È uno dei più

belli, potenti e vivi (anche se tra i più disperati e sofferti) che

mi sia capitato negli ultimi tempi tra le mani. Un grande, maledetto,

singolarissimo poeta italiano, che scrisse i suoi versi in

inglese perché suo padre era in Italia e dall’Italia scappò.

Dei dieci, dodici matti che mi leggono forse uno o due

potrebbero capire…

io, intanto, chiamo l’esorcista (pag. 28).

Considero gli Ossicini di Christian non solo un libro di poesia, ma anche una sorta di canovaccio o brogliaccio (e quest’ultima mia affermazione è un elogio), nel senso che l’autore mostra che cosa c’è dietro il testo poetico finito, ossia quella lunga, talvolta disperante serie di riflessioni, dubbi, letture di altri libri, ripensamenti, analisi ed autoanalisi teoriche; l’autore non si limita ad offrirci i testi conclusi, ma annota il difficile processo che a quelle versioni, mi verrebbe da dire, sufficientemente concluse, ha condotto ed ha il coraggio di mettere a nudo una condizione di scrittura nella quale la professione esercitata talvolta confligge con la creatività artistica, talvolta la sa nutrire, più spesso evidenzia il paradosso del poeta nel nostro tempo che nel suo scrivere poesia riconosce la propria realizzazione più piena, ma che ha bisogno, in modo estremamente realistico e pratico, di lavorare per vivere. A ciò si aggiunga il fatto che, in un contesto quasi del tutto monetizzato, la poesia viene disprezzata perché molto difficilmente il poeta “farà soldi” con i suoi libri. L’autoironia interviene ancora con quella definizione di poeta atipico / gran lavoratore perché evidentemente Christian ama la sua professione forse quasi quanto la poesia e perché quest’ultima va traghettata fuori, se possibile, dal luogo comune che ancora oggi, spesso, vede il poeta come un acchiappanuvole scollato dalla realtà. Per quel che riguarda il grande, maledetto, / singolarissimo poeta italiano, che scrisse i suoi versi in inglese, pur appartenendo ai dieci dodici matti che leggono gli Ossicini (ma mi auguro un numero di lettori più alto) non sono in grado di dire chi egli sia: più volte ho avuto la tentazione di chiedere direttamente a Christian, ma ci ho rinunciato, sia perché continuo ad accettare la sfida, sia perché tacerne il nome dopo aver fornito alcuni indizi appartiene al senso profondo di questo passaggio testuale; mi piace molto l’idea che una propria poesia nasca sulle pagine bianche di un libro che si ama (con questa bella immagine Christian dice in modo originale e concreto come siano sottesi alla nostra scrittura i testi e le opere degli autori che riconosciamo quali maestri) ed aggiungerei che tacere il nome del poeta rafforza la convinzione che la poesia stia diventando ormai un qualcosa di riservato agli happy few (i pochi pazzi), ma non perché Tito assume un atteggiamento elitario e decadente, bensì perché quest’attività così infestata dai fantasmi si scopre sempre più isolata e marginalizzata. Gli Ossicini entrano in maniera diretta nel dibattito sullo status del poeta e sulla sua visibilità (o invisibilità).

E torniamo alla farmacia-osservatorio, alla farmacia-punto d’incontro, alla farmacia-mondo:

FARMACIA 73.

(INGANNI)

Hanno giacche e fretta gli uomini del viagra

un po’ d’imbarazzo in chiunque compri profilattici

più grande di giorno in giorno l’esercito del tavor

hanno le pupille come due puntini gli eroinomani,

ma le insuline sono per il loro cane

sempre nell’altra borsa la ricetta della pillola

si chiama Carlo il re delle feci…

è tutto ciò che oggi mi diverte (pag. 39).

Ma è, evidentemente, un “divertimento” malinconico, un di-vértere se stesso dalla malinconia e solitudine per guardare con partecipazione e senza giudizi né pre-giudizi l’enorme solitudine delle persone che entrano in farmacia. Ed ecco che la farmacia-poesia sa guardare oltre le apparenze della metropoli lanciata verso le proprie magnifiche sorti e progressive (Expo, mi verrebbe da dire, nuove linee della metropolitana, i magnifici locali – come si dice? – trend, mi pare dove si cerca ancora l’oscena illusione della Milano da bere: scrivo Milano, ma leggo qualsiasi metropoli del mondo globalizzato).

Poche pagine più in là ecco che cosa mi colpisce in maniera particolare:

???

Si agita la vita attorno a me, dove va?

Macchine sfrecciano agli incroci, dove vanno?

Gente scende in metropolitana, gente sale, dove va?

Io

minimo frammento d’universo

io

impazzita scheggia di coscienza cosmica

dove vado? (pag. 49)

Tre punti interrogativi che fanno séguito a due testi anch’essi contrassegnati da tale segno d’interpunzione come titolo (prima uno, poi due, qui tre) e in cui si esplicita verbalmente il domandare sul senso e sulla direzione dell’esistere. So che Christian non si offenderà se scrivo che alcuni testi in questa parte del libro mi sembrano irrisolti dal punto di vista stilistico, che ho l’impressione che l’urgenza dell’interrogarsi non sempre abbia saputo trovare una convincente espressione poetica, ma è normale quando si ha il coraggio di confrontarsi con tematiche così ardue e si sta ancora cercando la propria “voce” definitiva, voce che, convincente e ben distinguibile, si fa udire spesso nel libro.

????

Cos’ è la morte padre? Perché così grandi i nostri sforzi

per allontanarla dalla vita? È davvero nemica? Come potremmo

noi fare o dire qualcosa che abbia senso o valore se essa

non camminasse ogni giorno al nostro fianco? Non come le

ultime le parole che la mia bocca deve pronunciare? Come le

ultime le note che ogni uomo dovrebbe suonare?

Padre, l’ho davvero vista o solo sognata la morte? Padre,

rispondi, era davvero la vita che teneva per mano? Padre?

Padre buono?

Buono perché non rispondi e mi esorti a cercare (pag. 50).

In questo caso l’icasticità dell’ultimo verso resta ben impressa nella memoria perché siamo di fronte ad un passaggio in cui esperienza umana e poesia coincidono perfettamente; inoltre emerge una figura (quella del padre) davvero risolutiva sia per la persona che per il poeta Tito, figura legata alla generazione, ma che, coerentemente, si connette anche al grande tema rimosso della nostra contemporaneità: la morte.

Interessanti anche gli intarsi da canzonetta presenti nella raccolta (l’Ela rap aveva già offerto, d’altronde, un esempio di mimesi di un genere musicale assai diffuso, portando ad una felice contaminazione tra scrittura in versi e musica che rispecchia gli interessi musicali dell’autore, la sua attenzione a generi musicali non sempre accolti dalla poesia, chiamiamola così, seriosa):

OLTRE CARTESIO. (NYC 2008)

Al quarto piano

del Moma

gioia

improvvisa

mi colse

e piansi felice

l’amata

stranita

mi prese

e chiese a gran voce

cosa succede?

Non è niente tesoro

sarà l’energia del colore

sarà quello che dice (pag. 66)

La giocosità ed il tono scherzoso non nascondono la serietà della situazione, ma servono ad evitare da una parte l’eventuale sentimentalismo, dall’altra l’eccessivo intellettualismo: la scelta è felice, proprio perché, prendendo in giro se stesso, Christian ci fa capire e sentire quanto profonda sia stata la commozione, rendendoci pienamente partecipi di quest’ultima. Assai modernamente gli Ossicini sono allora un miscuglio di toni espressivi e l’ironia subentra in modo intelligente per evitare cadute nel melenso e nel sentimentale, perché il lettore non deve trascurare il fatto che questo libro è colmo di tenerezza e di sentimento, l’ironia non è un indicatore di cinismo o di distacco, ma un mezzo per dominare la difficile materia, ovverossia il rapportarsi con il mondo e con gli eventi tramite, appunto, il sentimento e l’intelletto.

Ed arrivo ad un altro testo che trovo perfetto nel suo equilibrio espressivo e concettuale; eccolo:

FARMACIA 43

Corrado entra

chiede acqua

rivotril

e qualche goccia d’amore

Andrea mi ricorda

che i titoli non fanno l’uomo

né lo studio

l’intelligenza

entra in Cuoco

stanca umanità

che se non puzza

odora di miseria

e rivendica il suo diritto a esistere e maledire

la sorte o almeno l’a.s.l., il governo

e questo fottuto quartiere d’inferno

entrano i vecchi

a chieder della bionda

che sempre cortese (pagandone le spese…)

nei loro sensi ridonda

entrano in dicembre

due disgraziati col cacciavite in mano

a chiedere i soldi cresciuti in cassa

che se non saranno in cella

anche loro dovranno fare

i regali di natale

esco io sempre nomade

in Milano

l’avrei giurato:

qualche altro quartiere

mi chiamava pian piano (pagg. 68 e 69).

Quante Milano esistono in poesia? Azzardo un elenco: quella di Vittorio Sereni, di Giovanni Raboni, di Luciano Erba, di Gianni Montieri, di Daria Menicanti, di Franco Loi, di Delio Tessa, esistono anche dei testi milanesi di Ghiannis Ritsos, e Milano è quella di Leonardo Sinisgalli, di Antonia Pozzi, di Salvatore Quasimodo, di Eugenio Montale, di Guido Ballo, e lo so, lo so, mi sono andato a ficcare in un ginepraio: lascio ai lettori il piacere di aggiungere altri nomi e di citare i testi relativi, ma non so sottrarmi, quando leggo un libro di poesia, alla tentazione di cercare connessioni con altri libri ed autori dal momento che nessun libro di poesia nasce e rimane isolato in se stesso, ma appartiene ad un universo variegatissimo di altri libri, suggestioni, riferimenti, rimandi, accenni ed anche contrapposizioni e polemiche. Penso che la Milano di Christian possa entrare a pieno diritto a far parte del novero dei testi che meglio dicono in poesia la metropoli lombarda. E non mi sottraggo certo al dovere di elencarne le motivazioni: il punto di vista scelto da Christian (l’ho già scritto) è originale (la farmacia); i testi sono coerenti e lo stile ben riconoscibile; la pronunzia e l’impostazione del verso mi sembrano robusti, maturi e dominati in maniera consapevole; non si percepiscono derivazioni o imitazioni da altri autori, il che non significa che non esistano per Tito autori di riferimento, ma che la loro lezione è stata perfettamente assimilata ed è diventata parte integrante dello stile del giovane autore tarantino.

Quest’ultimo ricerca un’originalità d’impostazione e di dizione (la qual cosa conferma la mia idea degli Ossicini come di un libro concluso, sì, ma anche di un libro-officina) e la propone, per esempio, a pag. 72, dove al verso La poesia è dappertutto, stampato come solitamente avviene in apertura di pagina, segue lo spazio totalmente bianco della pagina stessa e solo all’ultimo rigo leggiamo pochissimi gli occhi che la vedono. Il bianco della pagina, abbagliante e capace di provocare, dopo la lettura del primo verso, una lunghissima sospensione del respiro prima di approdare al verso successivo, è a sua volta segno capace di visualizzare la sospensione, il salto, l’attesa oppure il vuoto percepito da chi non sa vedere o la densità del significato percepita da chi, al contrario, in quel bianco è capace di vedere.

E continuando ad esplorare la silloge trovo i versi seguenti:

(…)

ma l’uomo, l’uomo, il frutto è disposto a dirsi tale

solo perché nel suo animo sente ancora può giurare

la voce del fanciullo morto per amore

che come in canto dice

d’accordo ora sii uomo

ma non smettere di sognare (da Il reale principio, pag. 74).

Forse è adesso più chiaro il perché poco prima si parlasse di tenerezza: ma saper sognare non significa ingenuità quanto, invece, rivendicare alla poesia e all’arte la capacità di sollevare il livello spirituale ben oltre la rozzezza dei bisogni ed i condizionamenti dell’accadere meccanico o della biologia.

FARMACIA 78

(o 43 parte seconda)

Il farmartista non può essere fermo

un movimento continuo

rimbalzato tra i quartieri di Milano

versi scritti proprio in questo istante

e a questo rigo l’istante è già diverso

e passo le mie ultime quattro ore nella 43

perché la prossima è la 78

queste ultime ore di turno a saracinesca chiusa

ma siamo aperti c’è il cartello suonare

vorrei salutare un po’ di clienti

ma niente Corradi

niente vecchietti maleodoranti

niente di niente forse è la neve che cade

e tutti tiene a casa tranne i drogati in cerca di neve

ed eccomi

io da una parte

il drogato dall’altra

e a dividerci solo un po’ di fortuna

ed è come la loro la neve di Milano

bianca ma una volta sciolta mostra la sua anima nera

come dice Luigi

Luigi ha proprio la faccia e il corpo della sua poesia

la gioia e l’angoscia

donazione totale per la speranza del mondo

la speranza mia almeno

e chi sono tutti questi poeti? Che dicono?

Perché è da tre ore che giro nel web e quanti nomi

e quante parole nella poesia nostra!

Meno male che io non ci sono

felicemente inesistente tra di voi

e se anche i miei lettori sono inesistenti io vi giuro che

[esisto

e se sono io a leggervi viene voglia anche a me di

[drogarmi

e se continuo a scrivere poesie mentre vengo pagato

[per darvi medicine e consigli?

E se per caso esistesse un lettore capo infiltrato?

E se poi mi licenziasse perché non produco soldi ma

[poesie?

quando esco mi rotolo nella neve (pagg. 81 e 82).

L’incrocio lessicale tra farmacista ed artista genera farmartista; l’incrocio esistenziale e di scrittura tra un giovane poeta ed il grande Luigi Di Ruscio genera quest’intero testo e non solo; spero che in un prossimo futuro Christian abbia voglia o reputi opportuno raccontare il suo incontro ed il suo rapporto con Di Ruscio che è, tra l’altro, autore della postfazione agli Ossicini e che nel bellissimo testo appena riportato è punto di riferimento artistico ed etico, permettendo l’interessante virata polemica contro la pletora di poeti parolai e narcisi che occupano la scena. Quel se sono io a leggervi viene voglia anche a me di drogarmi mi riporta alla mente il sono morto per la vostra presenza che Salvatore (Totò) Toma rivolse ai suoi benpensanti, ipocriti concittadini magliesi, mentre il rotolarsi nella neve rimanda alla vena giocosa, ma anche protestataria dell’autore. E insisto sulla presenza di Di Ruscio, o meglio, Luigi, come sistematicamente scrive Christian: Luigi ha proprio la faccia e il corpo della sua poesia / la gioia e l’angoscia / donazione totale per la speranza del mondo / la speranza mia almeno. Chi legge queste note concorderà con me nel vedere non solo l’umana, partecipata ammirazione, ma anche la precisa esplicitazione di ciò che Tito considera poesia: la donazione totale affinché il mondo non perda la speranza ed anche la coincidenza tra poesia ed esistenza, tra poesia-mente e poesia-corpo. E non solo: il poeta di Taranto vede la poesia come un atto sovversivo, al punto che i suoi datori di lavoro potrebbero anche attuare strategie da servizi segreti, dal momento che l’imperativo assoluto è lavorare per vendere – e la poesia distrae, allontana da tale imperativo, addirittura lo nega.

L’avversione all’ipocrisia e alla menzogna, l’atteggiamento di sulfurea ribellione al pensiero dominante ritrovano nel padre del poeta una figura di grande forza ed anche in quest’occasione possiamo leggere passaggi che s’imprimono nella mente:

IL NUMERO MILLE

Svegliato anche stanotte da molte parole

prendere Tavor, En, Rivotril

il consiglio di novecentonovantanove dottori

mi fermo al numero mille

che non li consiglia

mio padre è morto a sessantuno anni

grazie all’insonnia”

mi ha detto ridendo anche in punto di morte

li ho fottuti tutti:

ho campato cent’anni!”

e poi è morto vivo

cosa piuttosto rara

e rideva anche da morto

spegnere con potenti sonniferi

ogni stralcio di vitalità

soffocare sul nascere ogni domanda scomoda

del corvaccio di dentro

spenti in pace orrenda

accomodàti in orribile cimitero vivente

aprirò una farmacia (qualcuno mi presti tre milioni)

per gonfiare le mie tasche

con le vostre stronzate

però portate la ricetta (pag. 83).

Morire vivo è, diciamolo ad alta voce, invenzione geniale ed impressiona la risata del papà dell’autore così aperta e libera, capace di esplodere anche in punto di morte e continuare dopo, sia sul volto che nella memoria del figlio e in questi versi donati ai lettori che non esitano ad usare espressioni gergali e forti per esprimere l’indignazione e la rivolta e transitare poi nel testo in prosa intitolato Gli oggetti smarriti (pagg. 86-89). Quest’ultimo andrebbe riportato per intero, ma, data la sua lunghezza, mi limito ad alcuni accenni; gli oggetti smarriti è costruito attorno ad un episodio semplicissimo: un uomo di colore ritrova un portafogli contenente una grossa somma di danaro e, senza toccare un centesimo, lo consegna al farmacista; questi lo fa avere a sua volta alla polizia municipale che, dopo un po’ di tempo, riesce a restituirlo al legittimo proprietario il quale si reca nella farmacia con l’intento di ringraziare il farmacista e racconta anche che dal portafogli manca una consistente somma e che sospetta l’abbia intascata un uomo di colore che, sostiene l’uomo, lo osservava proprio negli istanti in cui probabilmente il portafogli è andato smarrito. Il mio scolastico riassunto non rende per niente la tensione stilistica del testo, che trova il suo senso più profondo proprio nell’uso del linguaggio, nella sua costruzione tra gaddiana ed espressionista, con punte assai pronunciate di sarcasmo; tramite tale complessa tessitura linguistica si dispiega l’amara e non rassegnata riflessione sulla deriva sociale, civile e culturale contemporanea, la rappresentazione di un degrado che sia l’episodio narrato, sia il modo della narrazione condannano, per approdare alla conclusione

meglio che questo piccolo sottoscritto si dedichi a diffondere

il più possibile le poesie del più grande dei sottoscritti che

m’ha folgorato non sulla via di Damasco ma a Milano in corso

Garibaldi nella libreria di Marco e Laura che mi hanno

fatto conoscere dicevo questo enorme sottoscritto Luigi e

mentre scrivo noto che oltre a tutti gli oggetti che ho smarrito

ho smarrito pure la punteggiatura e pertanto Luigi mi possiede

non nel senso carnale ma in quello che abbisogna di

esorcisti pertanto qualcuno mi esorcizzi più efficacemente di

p. 28.

Anche in questo caso trovo davvero efficace l’identificazione tra Christian e Luigi (Di Ruscio), il ritornare del tema della “possessione” umana e poetica, senza che passino inosservati i giochi di parole, le allusioni, i doppi sensi, i calembours che Tito mette in gioco. E, giunti quasi alla fine del libro, comprendiamo definitivamente che dovremmo rileggerlo accompagnati dal sospetto che molti di questi testi siano nati o siano stati rivisti nel segno e sotto l’astro luminoso di Di Ruscio (ma anche la lezione di Antonio Porta non mi sembra estranea al farsi degli Ossicini).

IO VORREI

Costretto a cercare la bellezza

nei più oscuri anfratti

ringraziare di essere vivo

uomo in vita a caccia di tutti i segreti nascosti

il più bello dei giochi è scovarli tutti

e perderli un passo dopo

io vorrei farvi ascoltare la voce del gatto

farvi vedere le cose di questo mondo

mettervi in casa un ospite inatteso

vorrei dirvi della mia amica Angela

angelo volato via

del mio fratello gay

che quando mi ha detto di esserlo

era più rosso del fuoco

tranquillo amico mio:

tu sei gay

e io sono poeta

certe cose in certi ambienti è meglio tacerle

e di certo

tra le due

la più scandalosa è la poesia” (pag. 90).

Probabilmente nella conclusione di questo testo è presente un po’ d’enfasi perché più che scandalo la poesia desta ormai indifferenza o sorrisini di compatimento, ma, in ogni caso, si tratta di versi molto interessanti, anche se non pienamente risolti dal punto di vista espressivo e stilistico, mancanza anche questa comprensibile quando l’urgenza del dire prende il sopravvento o l’eventuale lavoro di lima non ha agito in maniera efficace. Ma si attua anche qui quella tendenza al dialogo che avevamo già individuato in precedenza (verrei farvi ascoltare … dirvi … vedere), emerge prepotente una spinta confessionale che, secondo me, andrebbe superata ricorrendo ad una sorta di “correlativo oggettivo” (una situazione concreta, un personaggio agente, un oggetto) capace di esprimere il sentimento o il pensiero strappandolo, appunto, ad un eccessivo soggettivismo; oppure un’altra soluzione potrebbe essere “asciugare” l’espressione, renderla più dura e tagliente, rinunciare al condizionale in favore dell’indicativo (ma, è chiaro, si tratta di mie opinioni personali e magari fallaci). E mi sembra che nel testo dal quale poi deriva il titolo dell’intera raccolta qualcosa del genere accada:

PRECIPITO

In scrittura rapida

ripida

spietata

a precipizio rotolare

nell’umida gioia

di gioie ai più sconosciute

un pollo arrosto mangiato in tua compagnia

mi ricorda che non dio

né Dio

né nessun santissimo nome

si nasconde tra tutti questi ossicini nel piatto

e neanche in quelli fuori dai piatti

ma una Cosa informe che dà forma a tutte le cose

e nel plasmare perenne

di certo tiene in poco conto tutta la cattiveria nostra

e anche la presunta a Lei attribuita (pag. 92)

Concludo richiamando l’attenzione sui due splendidi versi a suggello di Istantanea e so di non essere né il primo né il solo ad averli notati ed ammirati (anche Nicola Vacca li pone a suggello della sua presentazione), due versi che giustamente Christian inserisce nel suo straordinario cortometraggio I Lavoratori Vanno Ascoltati, sequenza di alta poesia che chiunque creda nella forza della parola e del pensiero dovrebbe vedere. Nel suo sconfinato amore per la vita questo poeta ha la forza di indignarsi e di sbeffeggiare chi proprio della vita fa mercimonio e campo di battaglia, chi organizza piani d’attacco commerciale in cubi grigi a molte stelle tra la tangenziale e l’inferno:

ISTANTANEA

Tra la tangenziale e l’inferno

in un cubo grigio a molte stelle

l’opportuna sede del meeting sul mercato

ed ecco il mercato in forma di torta

e attorno alla torta molti coltelli

e le figure coi coltelli pronte a scannarsi

un uomo scorre febbrile le diapositive

e febbrilmente cita uno scrittore che scrisse:

non importa se tu non ti interessi della guerra

perché è la guerra che si interessa di te”

un poeta travestito da loro dipendente scrive:

non importa se voi non leggete le poesie

perché sarà la poesia a leggervi tutti” (pag. 93).

Non importa se voi non leggete le poesie

perché sarà la poesia a leggervi tutti


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