Antonio Juvarra – Lettera aperta a Celine Dion

Creato il 07 gennaio 2016 da Gianguido Mussomeli @mozart200657

Antonio Juvarra mi ha inviato il suo periodico contributo in materia di canto, questa volta in forma di lettera aperta, che sostanzialmente è il commento di un breve spezzone di intervista a Celine Dion, che potete ascoltare in questo video prima di leggere l’ articolo.

LETTERA APERTA A CELINE DION O DELLA DIDATTICA VOCALE FONIATRICA

Cara Celine,

ti scrivo in italiano da quella remota provincia auto-americanizzata che ancora ha nome Italia (in attesa che venga chiamata ufficialmente Italy…) e già da questo si può arguire che non la leggerai mai, così come nessuno al mondo avrebbe mai letto il testo della teoria della relatività di Einstein, se Einstein l’ avesse scritto in italiano e l’avesse pubblicato in Italia, dove per un certo periodo, come si sa, visse.

Perché mai allora, si potrebbe chiedere qualcuno, scrivere una lettera a un destinatario che non solo non la leggerà mai, ma che ne ignorerà per sempre persino l’ esistenza?

Per sfruttare quel classico espediente retorico del parlare a nuora perché suocera intenda. Quale sia l’ identità della suocera (in questo caso un’ entità collettiva e non individuale) sarà facilmente intuibile dopo aver letto la pagina di questa lettera.

Mi è venuto in mente di scriverti perché qualcuno ha postato su facebook il video di una tua intervista, che mi ha incuriosito. In quella intervista tu accennavi ad alcuni esercizi vocali che è tua abitudine fare col tuo “coach” ed è come se tu improvvisamente avessi sollevato il coperchio di un tombino, in cui ho subito intravisto di sfuggita con sgomento vecchie conoscenze: tutto il ‘trash’ della moderna didattica vocale foniatrica, a base di trilli linguali e labiali, muggiti, cannucce in bocca, bocche tappate con la mano, sirene, mascherine, pernacchie nasali e orali e altri arnesi del moderno grottesco tecnico-vocale, spacciato per ‘scientifico’ e ‘tecnico’. L’ intervistatore stesso sembrava attonito e incredulo nell’ assistere a questo tuo ‘outing’ foniatrico.

Nell’ intervista tu definisci “boring” questi esercizi. Più che “boring” a me sembrano “stupid”, così come mi sembra “stupid” che tu ritenga utile fare esercizi che tu stessa giudichi “not artistically beautiful”. Trovo “stupid” anche che tu senta l’ esigenza di andare da un “coach” che ti fa fare cose “boring” (e “stupid”), compresa l’ idea che chi canta abbia bisogno di “warm-ups” e non di ‘tuning consciousness’.

Ma ciò che mi lascia maggiormente “astonished” e quasi “stupified” è che anche tu sia caduta nella pia illusione paleo-scientifica che la tua voce possa trarre giovamento da questi giochini, quando invece potresti benissimo continuare a cantare (forse anche meglio) senza perdere tempo a ripetere a pappagallo esercizi “boring”, di cui neppure il tuo “coach” a pagamento conosce il vero significato.

Vedi, se tu leggessi questa mia lettera, so che saresti così gentile da rispondermi, spiegandomi anche la funzione di quegli esercizi. Mi diresti che il ‘trillo labiale’ iniziale serve a mantenere flessibile e sciolto l’ apparato articolatorio, eliminando ogni rigidità; che il muggito successivo (“humming” per gli italiani), con tanto di tocco ‘twang’, è finalizzato a garantire la presenza della ‘formante del cantante’ e lo squillo della voce; che il ‘consonantizzo’ “bri-bre-bra-bro” serve a scolpire la pronuncia, mettere a fuoco il suono e farlo correre ‘avanti’. Insomma tutti i moderni pensierini prepensati e ‘phoniatrically correct’, sfornati dai catechisti della vocologia, accettati a scatola chiusa da tutti e pronti per essere messi in commercio.

Al che io ti risponderei (o forse mi limiterei a pensare) che se uno è in grado di parlare normalmente (e non ha subito danni cerebrali) è già in possesso di tutta la flessibilità articolatoria richiesta nel canto e che se improvvisamente quella flessibilità sparisce quando incomincia a cantare, la colpa non è né della povera lingua né della povera mandibola (che fino a due minuti prima di cantare avevano svolto perfettamente la loro funzione parlando), ma della tecnica vocale (magari scientifica..) che è stata loro imposta; ti risponderei che la nasalizzazione non amplifica la voce, ma la imbottiglia, e che questo mito idiota del twang continua a imperversare da noi a causa della nostra ridicola sudditanza culturale anche alla lingua dominante, l’ anglo-americano, che è pesantemente nasale, là dove il belcanto ha sempre visto nel “vizio del naso” il “difetto più orribile”;   ti risponderei che l’articolazione non è un detonatore, ma un sintonizzatore; che la massima belcantistica “si canta come si parla” non significa “si canta come si declama” e neppure “si canta come si sillaba” (come implicano le ridicole sillabazioni del Gabibbo vocale e concettuale del belcanto italiano, Seth Riggs ); ti direi che non si capisce perché la voce abbia bisogno di essere “portata avanti” tramite le vocali anteriori e i micro-detonatori delle consonanti bilabiali e linguali, ingenua teoria che se fosse vera farebbe sì che dicendo parole come, ad esempio, “bella occasione”, tutti sentirebbero la prima parola e nessuno sentirebbe la seconda, perché non abbastanza ‘avanti’.

Forse ti chiederei anche di spiegarmi che rapporto c’è tra la fissità asfittica dei moderni versi animaleschi e dei ‘rumorizzi’ tecnologici (di cui i tuoi esercizi rappresentano un esempio) con la mobilità acustica, la libertà, la varietà espressiva, la flessibilità, l’ampio respiro e la sinuosità della forma chiamata ‘legato’, che rappresentano la vera struttura ed essenza del canto. Tenterei in fine di farti capire che questi tuoi ‘esercizi’ non sono in realtà che una singolare forma di rituale nevrotico-ossessivo, scambiato per tecnica vocale, e che a compiere il prodigio illusionistico di farli credere esercizi tecnico-vocali è la cosiddetta foniatria artistica.

La prova di tutto questo? Eccola: dicendo ripetutamente e insistentemente che quegli esercizi per te sono “boring”, cioè noiosi, è come se tu avessi riconosciuto la loro perfetta inutilità ed estraneità al canto, e sai perché? Un vocalizzo non può agire da fattore formativo della voce, se non dà piacere. Questo principio è stato scoperto molto tempo fa dal belcantista italiano Mancini. No, non da Henry Mancini, l’ autore della musica del film ‘La Pantera Rosa’, ma da un suo grande quanto sconosciuto omonimo: Giambattista Mancini, castrato, maestro di canto alla corte di Vienna e ‘collega’ di Mozart in quella stessa corte in un tempo, ormai remoto, in cui l’ Italia non si era ancora auto-americanizzata, ma aveva italianizzato nel canto l’ Europa, la Russia e anche l’ America. Fu lui a scoprire che un fattore misterioso, la “previsione mentale del canto avendo letizia”, ha l’effetto di facilitare l’ emissione. Cantare e contemporaneamente sentirsi annoiati o infastiditi è infatti un “adynaton”, cioè un rapporto di elementi tra loro incompatibili, come lo è il volare e sentirsi pesanti, il mangiare e piangere, l’ assaggiare un ‘dolce’ e sentirlo salato, il cantare e gridare.

Ma i meriti di Mancini non si limitano a questa scoperta fondamentale, che fa da pietra tombale a tutti gli intellettualismi meccanico-muscolari partoriti dalla didattica foniatrica. Fu lui a concepire l’idea di una ‘tecnica vocale naturale’, che non è né un ossimoro, né una fantasia poetica né un’ utopia, ma un preciso principio operativo, assolutamente pragmatico e reale, che si spiega nel seguente modo: considerato che noi obiettivamente (ergo scientificamente) siamo degli organismi senzienti e pensanti e non, fantascientificamente, delle macchine e neppure degli animali, è ridicolo che noi ci illudiamo di essere diventati ‘cantanti scientifici’ (e non invece, più realisticamente e banalmente, bambini scemi o marionette), mettendoci a imitare le “pecore e le anatre” (Estill e Sadolin), le “porte cigolanti” (Riggs), le “sirene dei pompieri” (Estill), il “motore dell’ automobile” (Titze), la “voce della strega” (?!) (Riggs) con o senza l’ ausilio ‘tecnico’ di “mascherine da rianimazione”, “cannucce con cui fare le bolle nell’ acqua” e altre farneticanti bambocciate.

La vera tecnica vocale, pensava Mancini, andrà cercata non evadendo nel paese dei Balocchi ‘scientifico’, ma immergendoci sempre più profondamente in quella dimensione che ci costituisce e caratterizza come esseri umani. ossia innanzi tutto il linguaggio. Ma non nella sua versione degradata e burattinesca di balbettio meccanico alla Seth Riggs, bensì nella sua natura di movimento articolatorio continuo, fluido ed essenziale, non segmentabile nelle caselle immaginarie delle ‘sillabe esplosive’ delle ‘nuove tecniche vocali’, che stanno al vero parlato naturale come il Gabibbo sta al Davide di Michelangelo.

La geniale intuizione belcantistica dei ‘vocalizzi’ (come opposta ai moderni ‘rumorizzi’ sopra elencati) si rivela così come la trasposizione in un contesto vocale facilitato degli agenti ‘melogeni’, ossia generatori naturali del canto, insiti nel linguaggio umano, e che sono rappresentati dal cambio di vocali e/o di note a diverse altezze, effettuato utilizzando rigorosamente lo stesso ‘modello motorio’ automatico dell’ articolazione parlata, concepita come PROCESSO DINAMICO NATURALE e non come assemblaggio statico di oggetti sonori scollegati tra loro e fatti ‘esplodere’.

Questi elementi strutturali naturali, se lasciati accadere nella loro purezza e non ‘fatti’ attivamente, sono in grado di trasformare di per sé (ovviamente sulla base di una respirazione naturale globale e non superficiale né meccanica) il parlato in canto, la dove l’ effettistica rumoristico-vocale delle tecniche foniatriche potrà produrre al massimo imitazioni vocali e sonore di varia natura, ma non il canto, inteso come forma vocale, espressiva ed estetica tipicamente umana e, come tale, superiore evolutivamente alle forme più elementari, limitate e schematiche, tipiche della sonorità non umana.

La prova ‘a contrario’ di tutto questo è la seguente: nessun bambino imparerebbe a parlare, se provasse a utilizzare le tecniche vocali utilizzate oggi per imparare a cantare.

Morale della favola: quando tu fai quegli esercizi col tuo ‘coach’, non stai cantando e neppure stai studiando tecnica vocale, ma stai solo facendo ‘penitenza foniatrico- logopedica’ a pagamento.

Ricordo che, girando per gli Stati Uniti tanti anni fa, quando mi capitava di dire che ero di Verona, molti mi chiedevano meravigliati: “Ah sì? Anche voi in Italia avete una città che si chiama Verona?” Ecco, il mio timore è che oggi (non negli Stati Uniti ma in Italia!) qualche studente di canto moderno, sentendo che mi occupo di ‘opera’, possa dirmi: “Ah, quindi anche lei fa uso della qualità ‘opera’, scoperta dalla Estill! Io invece utilizzo il ‘twang’: sa, me l’ha consigliato il foniatra perché è più adatto alla mia conformazione fisica” Di belcanto ovviamente non oserei parlare, perché la reazione dell’ interlocutore sarebbe: “Belcanto? Cos’ è, una variante del Belting?”

Pensare che il canto possa sgorgare dai muggiti, dalle sirene, dalle pernacchie nasali, dai parkinson labiali e linguali è più surreale che pensare di poter cavare il sangue dalle rape, ma tant’ è.

Sembrerebbe quasi scontata l’ idea che per realizzare l’ “italo dolce cantare che nell’ anima si sente” (e non nel naso o nello sfintere ariepiglottico), si possa e si debba rimanere esseri umani normali e non sottoporsi a strane metamorfosi in macchine o in animali come nelle favole, eppure così non è: il Pifferaio Foniatrico ipnotizza con le sue mascherine e le sue cannucce magiche bambini e adulti appassionati di canto, e li conduce fino a una caverna, dove li fa entrare, richiudendola subito dopo.

Pare che da quella caverna sia fuggita recentemente una ragazza di nome Laura e che, traumatizzata, sia riuscita a dire soltanto una cosa di quello che aveva visto in quella caverna, quasi il messaggio di un naufrago infilato nella bottiglia, e il senso evidente di quel messaggio era: “Non andate nelle scuole di canto foniatrico, perché là non si impara il canto, lo si disimpara”.

Parlava evidentemente per doppia esperienza personale (di allieva e paziente della foniatria!), ma a sommergere le sue parole subito si alzarono non solo le voci di quelli che in buona fede non avevano capito il vero significato di quella denuncia, ma anche di quelli che invece l’ avevano capita benissimo e sentendosi minacciati, subito avevano provveduto a diramare dichiarazioni ufficiali di condanna di quell’uscita “irresponsabile”, ritraendosi in svariati ‘selfie-spot’ nelle loro spelonche foniatriche nell’ atto di stracciarsi le vesti scandalizzati.

Purtroppo non c’ è niente da fare: anche nel mondo del canto, se le persone non si svegliano, è solo perché il sogno che preferiscono sognare è quello di essersi già svegliate (grazie alla foniatria).

Molti si chiedono come sia possibile disimparare il canto, se non lo si è mai imparato. Il fatto è che i moderni stampini e gessi tecnico-vocali non sono la culla della voce, ma il suo letto di Procuste. Quante volte ho dovuto assistere ad audizioni di cantanti che avevano studiato canto per anni e che alla fine dell’audizione, magari andata male, rivelavano avviliti: “eppure io mi ricordo che prima di incominciare a studiare canto, facevo facilmente anche i Do acuti e adesso, no so perché, faccio fatica a fare un Sol”.

Cara Celine, sono tanti i cigni naturali del canto e tu eri uno di quelli. Purtroppo al giorno d’ oggi i cigni si sono fatti convincere che per imparare a nuotare sugli specchi d’acqua, quasi fluendo con quella stessa inimitabile grazia che hanno le danzatrici, devono andare a lezione da una nuova specie di animali: le galline meccano-foniatriche, il cui prototipo e capostipite, come si sa, è stata la Estill. E il problema non è tanto quello dei cigni naturali che riusciranno a continuare a essere cigni NONOSTANTE la tecnica motoria appresa dalle galline, quanto quello dei cigni naturali che, una volta diventati insegnanti, insegneranno ad altri cigni, tutti contenti, la ‘tecnica scientifica’ del saltellare sull’ acqua, come una volta insegnò loro la loro maestra gallina (“Ah, quant’ era brava la mia maestra! Unica! Lei sì che sapeva la vera tecnica!”).

Che dire a questo punto? Niente paura: sarà per la prossima vita.

Un caro saluto

  Antonio Juvarra