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Antonio Leonardo Verri, Pensionante de’ Saraceni: Guisnes e la Betissa

Creato il 11 ottobre 2010 da Cultura Salentina

di Augusto Benemeglio

 

Antonio Leonardo Verri, Pensionante de’ Saraceni: Guisnes e la Betissa

Antonio Leonardo Verri

 

Forse prima di morire ricordò quando tornava a cavallo coi trofei  della città di Guisnes, e spaziando già nel rigo, nei segni,  non riusciva a contenere la sua lussuria e la sua baldoria, e rapiva  una donna coi capelli di tabacco, le punte del seno scure  come more, gli occhi di rondine. E beveva  nella tazza antica della sua mente cercando il sapore avvelenato e forte della storia che tracimava, Cretesi Messapi Spartani, Bizantini, Saraceni, Turchi, e la perpetua città di Guisnes , là davanti, al traguardo dei novanta gradi, insieme a Nocera, fotografati da Bevilacqua  in una sfida grottesca; ecco le ombre di Guisnes (alias Gardignano)  che si gonfiano e si avvolgono e dilatano, complottano, radendo i muri… 

Verri ha sempre cercato il pericolo, come un rabdomante cerca l’acqua. Anzi, era lui stesso che creava il pericolo, sceglieva il sentiero più stretto, e portava sulle sue spalle tutta la montagna molliccia di Guisnes, che era poi il peso di tutta la terra, una vecchia ruota niente di più…”Alzo la terra, non mi serve sapere l’ora, forse non mi serve capire perché un mugnaio scriva una cosmogonia o un fornaio un trattato sulle forme…”

Oppure provava ad assaltare il cielo, a balzare verso il cielo, a drizzare la schiena in un volo disperato, come aveva visto fare a un pianista negro al pub di Maglie, ma non c’era niente da fare. Non c’era mai riuscito. Non ci sarebbe mai riuscito. Lui era angelo da pollaio, come quello di Marquez. Le ali ce l’aveva, ma non servivano. Avrebbe continuato ad andare in giro come un disperato, per altri inferni, sempre pieno di strazi, sguardi di vetro e di cieli ricolmi di stelle da far male. Per ogni  abbraccio, per  ogni  nuova forma di luce  e d’amore non avrebbe ottenuto altro che  risucchi ritmati, colpi in gola, rantoli, coltellate al cuore.

Era Rimbaud, con la sua dolcezza mortale  e l’insolente pietà, alle prese con le vocali, con una grossa vocale (che passione!) ; o  un architetto che costruiva le sue città invisibili, luoghi speciali,  paesaggi urbanistici dove liberare viaggi e fantasia. Geometra, musicista, pittore, aviatore, era uno scrittore intento a dare un’ombra inclinata al testo, al suo progetto di scrittura, il famoso “declaro”, il declarus di Fra Senisio il siculo che nel ‘300 aveva scritto uno straordinario atlante linguistico.

Aveva detto che non sarebbe morto se non avesse scritto il declaro,  la summa della sua scrittura, della sua poetica, della sua ragione artistica, della sua stessa esistenza. Lì c’era tutto un magico equilibrio di contrari  e un solido riparo all’amore per sua madre e la sua terra.  “Stefan ha un Declaro per la testa, libro di libri, di parole e basta, un declaro che pretende il sacrificio, la scancellazione di qualsiasi cosa. E allora il corpo viene invaso da parole; più le parole crescono e più il corpo si ritrae, diventa l’ombra di una mano sopra il foglio”.

Affannato, insoddisfatto, annota, riscrive con foga il Gran Libro, opera con dubbi incertezze tormenti angosce timori e tremori, non sa veramente di che si tratti; sa solo che è quello il suo impegno su questa Terra, questa  mostruosa e  affascinante “Betissa” , questa donna – scrive Fabio Tolledi- dalla fica dentata, marchingegno e divina creatrice, abnorme ammasso di carne e di luridume, di strabiliamento e di desiderio, di miasma e di profumo, di seduzione  assoluta e di orrore, che è  compresenza ambivalente della madre e della terra madre. (Continua…)

 


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