Antonio Pibiri - Le matite di Henze - Lampi di stampa, 2015
A volte non c'è un disegno nella poesia. C'è invece un'ispirazione, o un casus che
attraverso un percorso talvolta tortuoso (che, come diceva Flaiano, in
Italia è la linea più breve tra due punti, ma lui in verità parlava del ghirigoro)
arriva alla stesura di un testo, e qualche volta non ostante il suo
autore. Non è raro che tutto parta da una parola o da una incongruenza
verbale, che innesca un processo non del tutto cosciente. Può essere una
poesia degli oggetti, dello scorcio o, come ho scritto in altre
occasioni, di epifenomeni del mondo circostante, delle ombre della realtà, compresi certi dolori, veri o fantasma che siano.
La poesia di Pibiri parte spesso da elementi del genere, da accadimenti
semplici o semplici constatazioni, insomma da stimoli piccoli o grandi a
cui non si sottrae, cercando di includerli e talvolta di trasfigurarli
in un meccanismo poetante. Ci sono innumerevoli oggetti (alberelli di
pino, il cartone del latte, una sedia di legno, le uova sul tavolo, il
mare, il pane, pietre, conchiglie) che appaiono nel corpo del testo e vi
gettano la loro ombra come uno gnomone; o ci sono luoghi (un
appartamento, un terrazzo, una finestra, una stanza, un angolo in
penombra) che sono abitati o a volte subìti, non senza una qualche
ironia, e in cui talvolta la vita vive come in un acquario (più volte
citato); oppure ci sono persone, viste, incontrate, osservate o
ricordate, su cui ironizzare, come la pianista della poesia qui sotto, o
con cui fare qualche conto, tra rimpianto e presa di coscienza, come la
madre scomparsa o la figlia, una figlia materna a cui si racconta e da
cui ci si fa raccontare "la storia del mondo per darmi coraggio".
Tutti questi stimoli vanno ad alimentare nella stessa maniera la poesia
di Pibiri: una raccolta di indizi in cui la visione, l'occhio, ha una
parte rilevante, da spettatore, e che arrivano non necessariamente ad
una "verità", forse semmai ad una impressione di certezza, e
forse nemmeno del tutto ad una poetica del "dubbio", della moderna
inquietudine. Qui in realtà non c'è inquietudine o cognizione di una
complessità esistenziale, e forse nemmeno è necessario - certo - che ci
sia. C'è sì una serena, malinconica a volte, ironica correlazione tra
le cose, i fatti, le persone e il riflesso che essi gettano sulla vita
del poeta, ed è in relazione a questo che parlavo all'inizio di poesia
di epifenomeni, di ombre. Da questo punto di vista mi torna l'accenno a
un certo straniamento che fa nella postfazione Roberto Baghino, ma di
più quando dice, anche se forse non volendo dire, che "i suoi versi
intessono un tappeto che veramente noi osserviamo rovesciato". Ombre
proiettate su una platonica caverna? E non è un caso che la sezione che
preferisco, delle tre che compongono il libro, sia "Rompere il vetro",
in cui i temi hanno più respiro, più peso, la visione si allontana di
più da un orizzonte di piccole cose che non sempre assurgono ad epifania
o riescono a diventare uscite di sicurezza del pensiero dalla
quotidianità. C'è sempre in tutto il libro, a parte queste
considerazioni, una volontà di torcere la lingua poetica, di utilizzarne
le potenzialità, spesso molto bene. E anche se, nel tentativo di
scardinare il segreto che le parole custodiscono, qualche volta l'autore
eccede ("le dita molliscono nell’idrodinamica di un’acquasantiera"
oppure "E il cielo collirio irrigava, spenta / ogni sete, ogni collera
sulla congiuntiva, / per il bordo grondaia della palpebra") Pibiri sa
fare poesia, e i testi che ripropongo mi pare che lo dimostrino a
sufficienza. Infine un piccolo appunto: l'Isle-sur-la-Sourge, citata in un testo e nella postfazione, dovrebbe essere corretta in L'Isle-sur-la-Sorgue, città natale di René Char. (g.c.)
da Il sogno di Matisse:
Dopo lunga esposizione alla notte
le voci bieche, i duri becchi di Artaud
rompono i pori della radio,
in frantumi il servizio di cristalli,
bilico precario sulla testa.
Perdi le istruzioni, il gesto
pezzo dopo pezzo, ornitorinco
composito, venèfico
cieco dappertutto.
Se anche la madre langue nel sabbione della sua tristezza, e
non ti riguarda,]
non la punirai. Se spegne e accende la sua presenza difettosa
e tende un solo occhio quando rovini da palchi ondeggianti.
Se la madre è madre e copre il suo sesso ai tuoi sguardi,
imbarca a nozze nel mare che ti offende, e smetterà di ferirti
(prova perversa dell’amore). Se anche ti smarrirai in altra
felicità]
che non la contempla, e sarai salvo, non la punirai.
Se libero dallo spavento di non amarla.
In un paesaggio a smemoria d’uomo
il rumore disarticolato della natura,
dalla goccia al tremore di canne,
al mare completamente bianco,
coro di babbuini o cetonie sul parterre,
era il migliore silenzio di dio:
il suo articolatissimo tacere.
Anticamera - scorgere un terrazzo
vuoto desolato spazio a correrci:
un grande scafo in ombra
nel cantiere murale -
non un vaso, seggiola o palla,
bimbo dei rimproveri.
Chiedeva d’essere dimenticato.
Lo coltivai a papaveri.
da Rompere il vetro:
Il sogno di Kien
Il sinologo in segreto chiedeva
solo d’essere liberato: dallo spolvero,
le mura scaffalate, spertichi e costole
della sua biblioteca, risorgere
in cima al fuoco.
Aveva tenuto fuori dalla porta, ignorando:
le ferite d’ascia, foreste, il gelso
e la sua corteccia, gli impasti umidi,
la malattia delle piante, poltiglie,
il ritrarsi riflesso dai pruni,
tutto l’osceno odore dell’origine.
L’appartamento consiste in un presidio
di ordine, la superstiziosa igiene,
chiuso ai cani e ai bambini,
(cambiata l’acqua ai fiori, al bicchiere
dove gemmano gli spazzolini da denti)
in un’inerzia prima della creazione.
Solo gli occhi non sanno
tanto quel che resta, o rinuncia:
guardano attraverso un cono di vetro
che dal tavolo sollecita i limiti
stanchi dell’immaginazione,
i mondi tardivi, forse plausibili.
Come sfera visionaria,
o la bottiglia d’acqua e candeggina,
vero miracolo della luce, ai poveri di Manila.
Ci hai lasciato il settimo giorno,
sul grembo le mani, la pazzia.
La pianista
I suoi capelli sciolti sopra la cordiera.
La bocca muta: un’accusa contro ignoti.
Ma non sapevi che ogni volta
se nasce un figlio
è lontano
sulle dita.
Sei ciò che vedi al mattino, schiacciato
ai vetri, l’ultimo afflusso, fosfeni
presi nelle ciglia.
L’immaginario ha caviglie di sedia.
Gli occhi raggiunti in corsa.
Farsi strada è tutto a pezzi per aria,
o un mosè separato dalle acque.
Outdoor / indoor
Attraverso i doppi vetri della biblioteca
il giardino patisce, dai gialli cadmio al verde pallido,
fingono di morire nel rogo meriggio.
Una spugna d’aceto passa assetando i toni.
Ma gli scaffali alle spalle hanno
meno credibilità: del fossile di stella
che ci ha sempre mentito, o del profeta biblico
se chiude la sua carriera con una sbornia.