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Antonio Porta, “L’intellettuale come poeta”, 1979, testo della conferenza “L’intellettuale”

Creato il 19 luglio 2013 da Criticaimpura @CriticaImpura
Antonio Porta, 1988, foto di Carla De Bernardi. Per gentile concessione di Rosemary Ann Liedl

Antonio Porta, 1988, foto di Carla De Bernardi. Per gentile concessione di Rosemary Ann Liedl

Di ANTONIO PORTA *

Alla parola “intellettuale” mi viene voglia di rispondere: “non sta più qui” oppure “è scomparso da tempo“. Allora, non sta più qui o è scomparso?

La figura dell’intellettuale, come guida e punto di riferimento, è stata cancellata dalla superproduzione di individui di questa specie, tanto che sul mercato si è prodotto un fenomeno di offerta molto superiore alla domanda, in tutti i campi, anche dove l’intellettuale è in realtà un tecnico, come in medicina. Quindi la sua insicurezza si chiama: intercambiabilità. Livellare il funzionamento della macchina sociale è considerata una necessità, ma si parla di “macchina“, non di sociale, dal momento che la macchina cerca di stritolare il sociale e di sputarlo lontano, indecifrabile poltiglia.

È altrettanto noto che la fede nelle ideologie ha portato i suoi ciechi seguaci nell’area delle sabbie mobili e ora chi ha conservato la propria attitudine critica di base è costretto a osservare lo spettacolo disperato dalle rive della palude e non ha certo motivo di rallegrarsi. Si tratta di un suicidio in massa di intellettuali, neppure voluto fino in fondo, ma accettato: il salto, ancora una volta acritico, dal politico nel privato rimane un atto politico, miserabile e avitale perché succube del funzionamento della macchina e complice del tentativo di cancellazione del sociale. Ce n’è abbastanza per dire: intellettuale? Non so di chi si stia parlando, a meno che non si voglia entrare nel campo della tecnica e dell’organizzazione della produzione e della vendita dove l’esercito degli intellettuali competenti, dal marketing all’elettronica, è perfettamente in grado di fare funzionare la struttura macchinica. Quindi: l’intellettuale non è più qui, è altrove. Non nel Regno dell’Altro, non nella città di Utopia, ma ancora qui e ora, dislocato, insieme assente e presente. Vedremo se e come.

L’intellettuale cui sto pensando si può definire anche, rapidamente, uno che si occupa del linguaggio. Prima precisazione: non del linguaggio della filosofia e della logica, ma del linguaggio in situazione, dall’uso quotidiano alle scritture che coprono l’arco che va dalla poesia alla comunicazione senza operare soluzioni di continuità tra le varie scritture e/o discorsi. “Filosofia”, dice Wittgenstein, “potrebbe anche chiamarsi tutto ciò che è possibile prima di ogni nuova scoperta e invenzione” [1]. Occuparsi del linguaggio in situazione significa ricercarne “scoperte e invenzioni”, dire per capire.

In una società che tenta di costringere al mutismo, cioè all’uso acritico di un linguaggio di massa privo di significati non pre-fabbricati, sopra tutto in nome del “senso comune“, pattern che, come ha indicato Ernst Bloch, è l’esatto contrario del “buon senso“, che è invece il “senso caldo“, quello dell’orientamento, quello che salva grosse porzioni di massa dalla stereotipia. Il “senso caldo” segue dunque il filo rosso della salvezza e non rinuncia a pensare al futuro, produce movimento, mutamento, oltre la prassi politica dominante.

Seconda precisazione: occuparsi del linguaggio significa praticarlo, cioè sperimentare nell’uso la possibilità dello scarto, della differenza. Ma “differenza” non significa più, adesso, pura utilizzazione del residuo marginale della logica stabilita, ha piuttosto il senso caldo di “alternativa”, spostamento in un territorio altro dove la parola “trasparenza” riacquista il suo senso originario di svelamento. “L’intellettuale non è più qui”, è allora nel luogo dove la “trasparenza” riemerge dal fango degli stereotipi e ridà senso alla nostra storia e trova un numero sempre più grande di ascoltatori molto interessati alla propria esistenza, consapevoli del suo valore in .

Ma è opportuno segnare dei confini, indicare con più certezza il territorio in cui l’operare nel linguaggio pone le sue basi, dal momento che la stessa espressione “valore in sé” presuppone l’acquisizione di un senso. Nel suo saggio su Nietzsche Franco Rella [2] commenta queste parole: “Cosa può essere conoscenza? – “Interpretazione”, introdurre senso [Sinnhineinlegen] – non “spiegazione” [Erklärung] …” [3]; e scrive: ”Ma qual è il limite di questo operare, di questa attività? Qual è il luogo di questa relazione? Che cosa sta dietro la Fiktion del soggetto, della causa, dell’essere? Che cosa, infine, può sopportare questa “immane pluralità” [4]? Il corpo. [...] Ecco il limite dell’interpretazione, vale a dire il luogo della descrizione: infatti il corpo è da presentare metodicamente, è il luogo della pluralità irriducibile, ma è anche il luogo oltre il quale non si può andare. [...] La filosofia è stata fin qui “interpretazione del corpo” (ciò che non è interpretabile, ma solo descrivibile) e dunque “misconoscimento del corpo” [5]. È stata quindi un’arte fantasmagorica, eine Kunst der Transfiguration [6], proprio perché era un’interpretazione rovesciata: vale a dire interpretazione del corpo per misconoscerne il carattere materiale, plurale, di limite e giungere, attraverso questa negazione (questo “venir meno al corpo” [7]), all’anima”.

Operare nel linguaggio significa rendersi conto che anche il corpo è linguaggio (sistema di segni, sistema simbolico, Gisela Pankow). Senza di esso il corpo stesso non esiste. A riprova basti ricordare le esperienze di Fernand Deligny con i bambini mutacici (o autistici). Il corpo rimanda sempre al proprio funzionamento ma non vi è funzionamento, in senso stretto, senza un linguaggio. Se non parli, se non sai, non puoi agire oppure ti bruci una mano per sapere a che cosa serve, perchè c’è. Non provi dolore. Quindi spostarsi nel territorio della “trasparenza“, dove il linguaggio agisce a produrre senso, significa ritrovare il corpo, il limite, il fine stesso dell’esistenza. L’anima è dunque il linguaggio, il corpo. Ci siamo già, non ci si arriva: si parla.

Parlare o essere parlati? Il problema può essere affrontato partendo da Heidegger, cercando di capire che cosa vuole “parlarci” e come sia necessario rispondergli. Nel saggio “…poeticamente abita l’uomo…” scrive: “Perché, nel senso autentico, è il linguaggio che parla. L’uomo parla soltanto nella misura in cui risponde (entspricht) al linguaggio, in quanto ascolta la parola che questo gli rivolge. Di tutti gli appelli (Zugsprüche) che noi uomini possiamo con la nostra iniziativa far risuonare (zur Sprache bringen) il linguaggio è il più alto e il primo fra tutti. Il linguaggio, per primo e ultimo, ci indica (Winkt uns zu) l’essenza di una cosa. Questo però non significa mai che il linguaggio, in qualunque significazione verbale afferrata a casaccio, ci fornisca già l’essenza trasparente della cosa, in modo diretto e definitivo come se si trattasse di un oggetto pronto all’uso. Il rispondere in cui l’uomo propriamente ascolta la parola rivoltagli dal linguaggio è invece quel dire (Sagen) che parla nell’elemento del poetare “[8].

Rispondere presuppone la capacità di ascoltare, di mettere il corpo in sincronia con il linguaggio e strutturare la risposta in modo che sia aperta e onnivora, mobile, in grado di automodificarsi e di modificare le strutture fisse con cui deve venire in contatto. Non sempre “il linguaggio rimane signore dell’uomo”, come dice Heidegger nello stesso scritto, ma il rapporto può rovesciarsi nel momento in cui l’uomo, “parlato”, risponde e dunque riprende l’iniziativa.

La sua risposta, come ogni interazione, modifica la conoscenza acquisita, acquista un senso nuovo. È questo il significato proprio del verbo “poetare”. “Fare poesia” significa utilizzare la risposta come uno strumento (“Considera la proposizione come uno strumento, e il suo senso come il suo impiego!“) [9]. Non è tanto l’essenza della cosa che cerchiamo di svelare ma il “mondo”, prima del suo inserimento in una gabbia metafisica [10].

Scrive Novalis nell’Enrico di Ofterdingen: “La lingua è davvero un piccolo mondo in segni e suoni. L’uomo, come la domina, così vorrebbe dominare il grande mondo e potervisi liberamente esprimere. E appunto in questa gioia di palesare in essa ciò che è fuori del mondo, nel poter fare questo, che è precisamente l’impulso originario del nostro essere, risiede l’origine della poesia”.

Occorre capire che cosa Novalis ha voluto dire con quel “ciò che è fuori del mondo”. A mio parere significa: “ciò che scarta rispetto al mondo, ciò che tentiamo di mutare”. Il trauma “originario” dell’esistenza, la costrizione dell’esserci lì dove non possiamo che esserci per puro caso, viene recuperato e trasformato dalle domande e dalle risposte. Questa interpretazione è confortata da ciò che segue, nella stessa pagina: “È invero male che la poesia abbia uno speciale nome e che i poeti facciano una speciale corporazione. Pure, non c’è nulla qui di speciale. Questa è la propria maniera di comportarsi dello spirito umano. Non poeta forse e non s’affanna ogni uomo in ogni istante?” [11]

Il poetare e l’affannarsi posti sullo stesso piano segnano l’intensità dell’impulso allo spostamento dalla norma linguistico-culturale verso un piano “fuori del mondo”, cioè, paradossalmente, tanto dentro il mondo da modificarlo.

Il corpo indicato come limite di ogni possibile “senso” tende a dilatarsi fino a rischiare di perdersi. “Perdersi” vuol dire abbandonare i segnali della certezza e i confini del comportamento culturale indotto, per mettersi a parlare altro, senza arbitri e spezzature linguistiche qui e ora, ma ritmando una dislocazione continua del senso.

Wittgenstein scrive: “E se si chiedesse: “So a che cosa tendo, prima di averlo raggiunto?”. Se ho imparato a parlare lo so [12]. E ancora: “Ogni segno, da solo, sembra morto. Che cosa gli dà vita? – Nell’uso esso vive. Ha in sé l’alito vitale? – O l’uso è il suo respiro?” [13]

Il respiro è la negazione del silenzio e batte il ritmo della consumazione modificante della norma. La pagina precedente risulta troppo densa e sembra richiedere un ulteriore svolgimento. L’essere dentro il mondo tanto da uscirne fuori significa: un mondo altro. Il dentro è l’esserci critico, il frutto della cancellazione degli stereotipi, l’annullamento di ogni trasmissione coatta. La mutazione è la base possibile di un mondo fuori. La pena e le ferite della storia e insieme la necessità della storia si incrociano nel punto focale della mutazione, del movimento (non a caso “movimento” serve a connotare la mutazione separata dal mondo della dialettica, o pseudodialettica, politica). Fare poesia significa provocare movimento. O meglio: tentare il movimento. Al limite, esserlo. Dunque “fuori del mondo” significa: contro il programma.

Novalis dice: originaria aspirazione dello spirito. “Contro il programma” è la traduzione della medesima aspirazione in termini biologici. Provocare guasti nel programma vuol dire produrre residui apparentemente inutilizzabili: ma proprio utilizzando lo scarto, il residuo fisico marginale si pongono le basi della mutazione [14]. In questo senso fare poesia è arte del bricolage linguistico. Fare poesia è anche un guardare l’immagine dentro la parola e aprire la parola per fare uscire l’immagine o usare catene di parole secondo il ritmo delle immagini o usare ritmi di parole per ricondurre l’immagine alla vista e osservarla il più a lungo possibile: a quel punto l’immagine svela il movimento.

Affidarsi al respiro è già un perdersi. Ma entro confini criticamente definiti (il dentro è appunto l’esserci critico): il corpo non deve lacerarsi, fuggire per proprio conto, annullarsi, invocare la propria distruzione. Il corpo ha fame e il sentimento della fame sta alla base anche del rapporto chiamato “amore”. Il corpo si dilata e nutre e viene nutrito. Quindi il perdersi che comincia con il respiro, primo consumatore e nello stesso tempo produttore di energia, è in realtà scoprirsi, nutrirsi di un cibo nuovo non escrementizio.

Si sta delineando il significato “utile” di perdersi: perdersi significa mutare, con una forte accentuazione su quello che davvero si perde, si consuma, si lascia dietro, radici secche dissotterrate e bruciate. È un assioma che ogni mutazione deve passare attraverso una lingua e attraverso linguaggi specifici (si pensi alla scienza, alla tecnica, ecc.) ma ciò che si vuole affermare, qui e ora, è che ogni mutazione antropologica passa anche attraverso il linguaggio della poesia. All’interno di un sistema simbolico, o sistema di segni, il linguaggio della poesia (che comprende non solo la poesia in senso stretto ma ogni tipo di scrittura con uno specifico creativo, quindi anche “scrittura critica” in grado di interagire con l’esperienza) agisce come uno strumento di deviazione di senso. La poesia cambia le regole dei giochi: dunque abolisce i giochi riconosciuti e ne propone di nuovi, chiusi, come ogni gioco, e insieme aperti a successive mutazioni.

Si chiamerà “linguaggio della poesia” in senso più stretto quel linguaggio nuovo, dislocato, deviante, che lascia un largo margine a utilizzazioni diverse. Ciò che si è chiamato “ambiguità” della poesia diventa “polisemia”. Mi pare questa una precisazione utile rispetto all’espressione “specifico creativo” che somiglia troppo a quella di “principio soporifero” di cui si parla a proposito delle qualità dell’oppio nel Bourgeois gentilhomme. Nota Gregory Bateson in una recente intervista (gennaio 1979) alla rivista “Psychologie”: “Noi, in quanto occidentali, pensiamo in termini dinamici, transitori: qualcosa agisce o è fatta agire (o non agire) su un’altra cosa. Sono soltanto le parti di un sistema completo ma il nostro linguaggio – e di conseguenza il nostro pensiero – ci porta a concepirle semplicemente in modo lineare, non come un circuito completo”.

Ora, è proprio la sicurezza che ogni movimento del nostro linguaggio “poetico” agisce su un sistema completo e circolare (aggettivo ancora di Bateson) che ci induce a pensare in termini di ristrutturazione di regole dei giochi più che di spostamenti in avanti semplicemente lineari. Dunque nuovi modelli di pensiero poetico producono spostamenti nell’intero sistema (gli scarti, le sopravvivenze nel kitsch non sono oggetto del presente discorso) e parallelamente producono “conoscenza”, cioè dicono quello che non si sapeva prima. Non solo conoscenza del reale e della realtà, che è un presupposto necessario alle interazioni, ma scoperta del non-saputo, costruzione nuova del sapere.

Per il termine “costruzione” viene utile l’esempio dell’architettura dei grattacieli, trasformazione in linguaggio nuovo delle antiche sculture indiane, totemiche. I grattacieli non sono più totem ma una risposta dell’artificiale poetico al tempo naturale, meteorologico. Servono a catturare la luce non a pregare.

Ma il linguaggio “mente”, inganna, rimandando a se stesso apre il vuoto, marca la differenza tra l’essere e l’esistere. Si ritorna al concetto di Altro, si producono tensioni verso una nuova metafisica. Il pensiero poetico propone di considerare l’essere in senso strettamente materiale: l’essere è la materia, il dato con cui gli uomini interagiscono. L’universo c’è ma per l’uomo esiste perché viene parlato. Questo è assiomatico. Dunque l’esserci dell’uomo è il suo linguaggio (che deve essere anche parola). Il linguaggio è il luogo delle interazioni (ciò vale a fortiori anche per la scienza), quindi il deposito della storia [15]. Non ci serve niente di più. Una postilla sul soggetto: il soggetto è scomparso in quanto accentratore dell’operatività del sapere. Il “poeta” è “uomo tra gli uomini”, niente di più e niente di meno. Al servizio degli uomini e, come lo scienziato ideale di Einstein, dovrebbe guadagnarsi la vita “facendo il ciabattino”.

Il concetto di “circuito completo” di Gregory Bateson viene direttamente da quella “sapienza greca” (in Italia si è identificata col lavoro di Giorgio Colli sul pensiero pre-aristotelico) che viveva l’idea totalizzante dell’infinito come matrice di se stesso in quanto materia (Anassimandro) prima di ogni separazione classificatoria, “scientifica” e di conseguenza “metafisica”. La dialettica nasce con il respiro, immagine speculare a quella di Wittgenstein: l’uso è il respiro del segno.

Dunque la polisemia del linguaggio poetico non si preoccupa tanto di “andare al di là” ma di restare il più possibile “al di qua” nel circuito onnicomprensivo dell’umano. Dice ancora Bateson: “Noi abbiamo la tendenza a pensare per astrazioni, ma le astrazioni rappresentano male il mondo reale”.

Il pensiero poetico vuole avere ben poco a che fare con il concetto di “rappresentazione”, piuttosto si riconduce a una funzione “ rammemorante” (an-denkend) che non ha presente l’essere come tale ma lo ricorda in sua assenza. In questo rammemorare, il pensiero poetico intuisce la possibilità di vivere l’esserci senza cadere dal bilico in cui si trova nell’abisso dell’assenza. È un problema di sopravvivenza, cui serve più la “menzogna” della scrittura che la “verità” della conoscenza (“il fare poetico produce senso non conoscenza”), perché non è mai questione tra menzogna e verità, ma di “trasformazione della storia”. Il pensiero poetico si preoccupa di “sfondare”, oltre l’esserci per la morte, in direzione della memoria produttiva della specie.

A questo punto, continuando a sondare una tematica come quella proposta dal titolo Intellettuale come poeta, potrà apparire evidente una lacuna volontaria: il discorso sui rapporti con il “politico” o con la politica nella prassi fin qui nota. Desidero precisare soltanto la mia attuale convinzione che a livello teorico sia bene, ora come ora, tenere separati i due campi. Un certo concetto di “politico” è tramontato, le ideologie politiche hanno mostrato tutta la schematica fragilità delle loro strutture volontaristiche e in definitiva conservatrici. Si ha dunque l’impressione che il “politico” continui a coincidere con quel “potere” che prende così corpo e smette di aleggiare in ogni microstruttura e che, una volta rivelatosi (“il potere sono io“), serve a gestire lo scontro tra i gruppi di potere reale, avendo, come obiettivo il mantenimento di una situazione che si può definire di stallo. Il “politico” incarnatosi finalmente in un uomo politico sarà tanto più forte quanto più riuscirà a rimanere immobile. L’intellettuale come politico potrà parlare di “movimento” o di mutazioni quasi esclusivamente in chiave demagogica: nella realtà potrà accentuare la più o meno durevole egemonia di un gruppo sugli altri o fare da arbitro in partite che si giocano in situazione di sostanziale equilibrio.

Il linguaggio della poesia ha tutt’altri obiettivi e mi sembra opportuno tornare a questo argomento specifico per occuparsi del concetto di “degradabilità” della letteratura, che mi pare entri direttamente in quella zona dell’azione linguistica che si riferisce al mutamento. Proprio per non negarsi alla necessità della mutazione / movimento occorre accettare preliminarmente la provvisorietà dell’efficacia del linguaggio poetico. Il pensiero poetico impone, per così dire, al linguaggio della poesia di consumarsi e di ricominciare da capo, ogni volta, l’avventuroso percorso.

L’intellettuale come poeta deve essere consapevole che può agire entro questi “confini”, ma la parola “confini” è impropria e limitante perché, in realtà, quello della poesia è un agire fuori dei confini e senza confini prestabiliti ma certamente secondo un programma che non può comprendere in sé la ricerca dell’assoluto. L’assoluto chiama la morte, la ingoia e la risputa sotto forma di inganno poetico, suggerendo, in forma del tutto consolatoria, “ecco, qui siamo arrivati”. Invece il pensiero poetico dove arriva riparte subito.

Questa caratteristica del fare poesia, questa sua peculiare instabilità richiama per analogia Analisi terminabile e interminabile. La risposta è unica, “interminabile”, non solo perché la lotta con i fantasmi delle culture trasmesse e dominanti non può finire, complice il programma biologico della specie, (che a volte serve come alibi), ma perché ogni mutazione richiede un processo di ristrutturazione globale e circolare che non può “finire”, avere un “terminal” se non momentaneo, perché sarà lo stesso pensiero poetico o lo stesso prodursi di un linguaggio nuovo a rimettere in crisi il sistema con piccoli o grandi spostamenti di una delle infinite parzialità e varianti possibili. Insisto sul termine “parzialità” per la semplice ragione che occorre essere consapevoli che l’unico modo utile di procedere è la messa a fuoco successiva di campi di interazione diversi, ben sapendo che ogni intervento non sarà confinato entro quel campo e che le interazioni ne produrranno altre e così via, infinitamente. Il che significa, per usare la precedente metafora, produrre moto o movimento. E viene in luce, ora, una questione di poetica: la necessità di articolare il linguaggio in narrazione piuttosto che bloccarlo nei suoi significati radicali: narrare è quasi sinonimo di mutamento, di sviluppo, di intreccio.

Ma a questo punto sarebbe necessario cominciare a leggere testi di poesia. Dunque questi appunti, che hanno sopratutto il significato di tensioni verso una poetica nuova, verso linguaggi nuovi, hanno concluso il loro obliquo cammino.


[1] L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1974, § 126.

[2] F. RELLA, Dallo spazio estetico allo spazio dell’interpretazione, in “Nuova corrente “, n. 68/69. 1975-1976, p. 412 e p. 410.

[3] F. NIETZSCHE, Werke, Hanser Verlag, München 1969, III, p. 503; ID., Wille zur Macht, Kröner, Leipzig 1911, p. 604.

[4] Wille zur Macht, cit., p. 518.

[5] ID., La gaia scienza, in Opere, V, 2, Adelphi, Milano 1965, p. 19.

[6] Ibid.

[7] Wille zur Macht, cit., p. 491.

[8] M. HEIDEGGER, Conferenza del 6/10/1951.

[9] WlTTGENSTEIN, op. cit., § 421.

[10] HEIDEGGER. La cosa (1950), in Saggi e discorsi, a cura di Gianni Vattimo, Mursia, Milano 1976, pp. 109 sgg.

[11] NOVALIS, Enrico di Ofterdingen, Milano 1978.

[12] WlTTGENSTEIN, op. cit., § 441.

[13] Ibid., § 432.

[14] F. JACOB, Evoluzione e bricolage, Einaudi, Torino 1978.

[15] Cfr. E. BENVENISTE, Dizionario delle istituzioni indoeuropee, Einaudi, Torino 1977.

_____________________

 * [Già edito in L’Intellettuale, Marsilio Editore, Venezia, agosto 1979.

Prima parte, con varianti in Spirali, Giornale Internazionale di Cultura, anno II, maggio 1979 - testo della Conferenza L’Intellettuale.

Ringraziamo Rosemary Ann Liedl per la gentile concessione del testo e dell'immagine.]


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