“La vostra percezione, per quanto istantanea, consiste dunque in un’incalcolabile moltitudine di elementi ricordati e, a dire il vero,ogni percezione è già memoria. Noi percepiamo, praticamente, soltanto il passato, essendo il puro presente l’inafferrabile progresso del passato che rode il futuro”
(Henri Bergson)
Un artista archeologo; un artista che scava in un passato prossimo, in un tempo nel quale una fotografia era qualcosa di raro e si aspettava con ansia e trepidazione la risposta ad una lettera inviata mesi e mesi prima. Chi è la persona ritratta in foto? Qual è la storia sottostante quelle lettere? sono domande la cui risposta non interessa a Raucci. Perché quei pezzi di un puzzle hanno valore anche se il puzzle non viene completato; perché raccontato una storia che può essere la storia di tutti e di nessuno; perché ognuno può identificarsi in quelle figurine ritagliate e decontestualizzate; ognuno può essere il destinatario di quelle lettere difficili da decifrare perché fatte a pezzi dall’artista.
Fare a pezzi una storia per renderla la storia: l’identità, il chi siamo e il chi siamo stati, diventa, in tal modo, una memoria comune e, si sa, una memoria comune definisce l’appartenenza. Appartenenza, tuttavia, non ad un preciso popolo, o ad una precisa nazione, ma appartenenza all’intero genere umano, fatto di microcosmi e microstorie quasi mai raccontate.
Raucci raccoglie, dunque, tasselli di queste storie, li inserisce in contenitori che, sapientemente, struttura come fossero dei veri e propri cassetti. I famosi cassetti della memoria che quando meno ce lo aspettiamo si aprono portando alla luce immagini, odori e sensazione che credevamo sopite nel nostro animo.
C’è dell’ironia nella ricerca di Raucci, ma è un’ironia, ritengo, che cela una profonda nostalgia e una velata malinconia per tempi andati.
Se “i cassetti” di Raucci invitano lo spettatore a compiere un viaggio alla ricerca, attraverso ricordi altrui, della sua memoria e della sua identità, i suoi assemblaggi e i suoi oggetti rifunzionalizzati rendono l’artista un ingegnere del tempo perduto: pezzi di ferro, scarti di materiali industriali, segni indelebili del passaggio e dell’intervento dell’uomo nella storia, sono i suoi “colori”; le sue mani e le sue idee si fanno, in tale logica, “pennello” e l’intero mondo è la sua “tela”.
Partendo da una metodologia artistica che, penso, affondi le sue radici in un’ottima conoscenza del concetto di ready made duchampiano intriso di un substrato surrealista, i lavori di Antonio Raucci spostano l’asse dal “che cosa era?” al “chi è”: perché l’oggetto, anche quello più banale, scelto tra tanti dall’artista, assume una sua forza ed una sua identità e, inevitabilmente, finisce con l’essere qualcuno o con il mettere in evidenza caratteristiche, pregi e difetti di una persona e di tante persone.
Tutta la sua produzione, dunque, moltiplica a dismisura la soggettività di un ricordo, rendendolo il ricordo di tutti e, allo stesso tempo, la storia di nessuno: ognuno di noi è, citando Pirandello, uno, nessuno e centomila; ogni uomo vive “con lo spirito pieno di mondi, o di sassolini”.
Luca Palermo