Antonio Raucci: archeologia contemporanea

Creato il 15 dicembre 2015 da Enza Angela Massaro @doxenya

“La vostra percezione, per quanto istantanea, consiste dunque in un’incalcolabile moltitudine di elementi ricordati e, a dire il vero,ogni percezione è già memoria. Noi percepiamo, praticamente, soltanto il passato, essendo il puro presente l’inafferrabile progresso del passato che rode il futuro”

(Henri Bergson)

Narrare una storia senza raccontarla, aprire cassetti di una memoria lontana, cercare un’identità perduta nei meandri del tempo: sono questi i presupposti da cui parte l’intera  ricerca estetica di Antonio Raucci, artista insolito, lontano dagli schemi imposti da un sempre più pressante sistema dell’arte contemporanea.

Un artista archeologo; un artista che scava in un passato prossimo, in un tempo nel quale una fotografia era qualcosa di raro e si aspettava con ansia e trepidazione la risposta ad una lettera inviata mesi e mesi prima. Chi è la persona ritratta in foto? Qual è la storia sottostante quelle lettere? sono domande la cui risposta non interessa a Raucci. Perché quei pezzi di un puzzle hanno valore anche se il puzzle non viene completato; perché raccontato una storia che può essere la storia di tutti e di nessuno; perché ognuno può identificarsi in quelle figurine ritagliate e decontestualizzate; ognuno può essere il destinatario di quelle lettere difficili da decifrare perché fatte a pezzi dall’artista.

Fare a pezzi una storia per renderla la storia: l’identità, il chi siamo e il chi siamo stati, diventa, in tal modo, una memoria comune e, si sa, una memoria comune definisce l’appartenenza. Appartenenza, tuttavia, non ad un preciso popolo, o ad una precisa nazione, ma appartenenza all’intero genere umano, fatto di microcosmi e microstorie quasi mai raccontate.

Raucci raccoglie, dunque, tasselli di queste storie, li inserisce in contenitori che, sapientemente, struttura come fossero dei veri e propri cassetti. I famosi cassetti della memoria che quando meno ce lo aspettiamo si aprono portando alla luce immagini, odori e sensazione che credevamo sopite nel nostro animo.

C’è dell’ironia nella ricerca di Raucci, ma è un’ironia, ritengo, che cela una profonda nostalgia e una velata malinconia per tempi andati.

Se “i cassetti” di Raucci invitano lo spettatore a compiere un viaggio alla ricerca, attraverso ricordi altrui, della sua memoria e della sua identità, i suoi assemblaggi e i suoi oggetti rifunzionalizzati rendono l’artista un ingegnere del tempo perduto: pezzi di ferro, scarti di materiali industriali, segni indelebili del passaggio e dell’intervento dell’uomo nella storia, sono i suoi “colori”; le sue mani e le sue idee si fanno, in tale logica, “pennello” e l’intero mondo è la sua “tela”.

Partendo da una metodologia artistica che, penso, affondi le sue radici in un’ottima conoscenza del concetto di ready made duchampiano intriso di un substrato surrealista, i lavori di Antonio Raucci spostano l’asse dal “che cosa era?” al “chi è”: perché l’oggetto, anche quello più banale, scelto tra tanti dall’artista, assume una sua forza ed una sua identità e, inevitabilmente, finisce con l’essere qualcuno o con il mettere in evidenza caratteristiche, pregi e difetti di una persona e di tante persone.

Tutta la sua produzione, dunque, moltiplica a dismisura la soggettività di un ricordo, rendendolo il ricordo di tutti e, allo stesso tempo, la storia di nessuno: ognuno di noi è, citando Pirandello, uno, nessuno e centomila; ogni uomo vive “con lo spirito pieno di mondi, o di sassolini”.

Luca Palermo


Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :