Antonio Tabucchi, misura di un genio

Creato il 25 marzo 2012 da Pupidizuccaro

Sostiene Pereira che Pessoa abbia cambiato la vita di Antonio, morto oggi a Lisbona, mentre Tabucchi resta nelle sue pagine con la limpidezza che gli è sempre appartenuta. Sessantotto anni ormai non vengono considerati chissà quale età per togliere il disturbo. Eppure, bastano per lasciare ai lettori nel tempo la dignità di un’opera onesta, il proprio mondo di scrittore vecchia maniera, che preferiva fare solo il suo mestiere, piuttosto che impiegarsi nella febbrile mania dell’opinionismo tout court e negli arrembaggi degli insistiti giri promozionali che sembrano essere il pane dell’intellettuale odierno. Rifuggiva le vetrine in maschera di grillo parlante; semplicemente, aveva deciso di lasciare parlare le sue pagine e basta. Non che rimanesse al chiuso della sua stanza. Se gli chiedevi come la pensava, te lo diceva senza mezzi termini, e tutti conoscono la sua opinione sull’Italia imbavagliata e medievale degli ultimi decenni.

Del resto, in proposito, poteva vantare la lucidità di quella che si chiama visione dall’esterno sui fatti di casa nostra. Una prospettiva comunque ben più ridotta, rispetto a quella “visione dall’eterno” che si è guadagnato con i suoi libri e la sua attività di traduttore. E, in fondo, le due cose sono anche collegate. Nella mia immaginazione, infatti, Antonio aveva deciso di vivere a Lisbona per cercare di avvicinarsi all’imperitura dimensione poetica che, prima di molti, aveva abitato nel periodo in cui decifrò per noi in modo sublime l’enigmatico Pessoa. Poco importa se i dati storici non combaciano, se le nozioni dei più contraddicono questa mia sensazione. Io so di aver letto il Libro dell’Inquietudine, oltre ad aver conosciuto il vecchio Pereira e sentito la musica allucinata del Notturno indiano.

Tanto mi basta. Tanto riecheggiano nella mia mente gli edifici impossibili e indefiniti della scrittura di Bernardo Soares. Tanto riesco ancora a percepire lo sgomento emotivo che mi investì, risalendo le pagine di quel diario semi-eteronimo. Una piena immedesimazione estetica che, dalla totale e voluttuosa conformità portava agli estremi del rifiuto, per un meccanismo puramente auto difensivo: io dovevo continuare a vivere, chiuse le pagine di quel libro. Se la mia esperienza di lettura è stata così intensa, sapendo ora cosa significa tradurre un’opera letteraria, posso considerarla solo un’ombra del tumulto che avrà prima assalito, poi posseduto Tabucchi nella ricreazione di quel mondo. L’icasticità del suo linguaggio, il fatto che quelle parole, una per una, non potevano essere altre e poste in ordine diverso, tanto da far pensare che, sì, di certo quel libro poteva essere stato scritto solo in italiano e che, no, non poteva essere nato prima nella sedicente versione portoghese di Fernando, è tutto merito e misura del genio di Antonio.

Non credo che da qualche parte, in qualche redazione di giornale o di rivista letteraria, un Monteiro Rossi avesse già consegnato il suo coccodrillo, il necrologio anticipato, sul nostro scrittore. Però mi piace pensare che adesso Tabucchi sieda a un tavolo accanto al suo Pessoa – di cui alcuni sostengono che fosse l’ultimo eteronimo – sorseggiando limonata zuccherina e ordinando due porzioni di omelette alle erbe aromatiche. Chissà che discorsi fra loro… chissà quali silenzi.


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