Vediamo alcuni limiti e punti di debolezza della discplina antropologica quando si intenda applicarla a questioni di policy e, in generale, in un contesto di cambiamento sociale. La situazione, descritta dagli antropologi di molti paesi, è presto detta: tutti evidenziano come l’antropologia abbia “grandi potenzialità” di applicazione e come sia “utile e necessaria in un molto sempre più connesso e globalizzato” ma nel momento del suo coinvolgimento concreto in molteplici programmi di ricerca, programmazione, sviluppo e applicazioni mostri talmente tante e tali vulnerabilità da non incidere in maniera rilevante nei processi pubblici, finendo spesso con l’amara sensazione che la montagna, per l’ennesiama volta, abbia partorito un topolino. Vediamo più in dettaglio queste criticità, più volte segnalate anche da antropologi dell’American Anthropological Association e dal gruppo “applicato” di Practicing Anthropology.
1) La letteratura antropologica, in massima parte, non ha alcuna utilità per chi elabora policy e per il pubblico in generale. Chi scrive di antropologia lo fa secondo gli standard dell’accademia, scrive per i propri pare, con i quali condivide teorie, pratiche e gergalità, e al fine di massimizzare il valore delle pubblicazioni per lo specifico contesto accademico le riempie di dettagli, fa infinite introduzioni teoriche, revisioni bibliografiche, disquisizioni terminologiche. Come è chiaro, tutto ciò non riscuote il minimo interesse in chi cerca informazioni e contestualizzazioni per affrontare problemi concreti. Questo stato di cose è perfettamente logico, ma resta illusorio pensare di fare antropologia applicata con gli strumenti dell’antropologia accademica in quando la ragione sottostante i due tipi di consocenza è completamente diversa. Tradizionalmente, gli applied trovano la produzione accademica verbosa, incapace di fare il punto, astratta e stilistica; gli academics trovano le (rare) pubblicazioni applicate superficiali, scarsamente fondate teoricamente, poco inclini a rappresentare la complessità dei problemi.
2) L’antropologia ha uno sguardo ampio e articolato sulla realtà, ma fatica a focalizzarsi su questioni particolari in maniera approfondita. Basta ascolta due antropologi che dialogano e, dopo qualche minuto, partendo da qualsiasi argomento X, si troveranno a disquisire, con furore metafisico, sulla natura umana e sui grandi sistemi. A volte questo atteggiamento ipergeneralizzatore risulta stucchevole, direi imbarazzante agli occhi di chi legge e osserva. Ci sono problemi notevoli di gestione dei livelli di analisi, criticità che rende gli impianti argomentativi degli antropologi spesso vacillanti, poco credibili, difficili da sostenere con convinzione, poco inclini a essere trasformati in indicazioni operative concrete, che è ciò che cercano i policy makers e i committenti in generale.
3) Spesso gli antropologi sono pessimi comunicatori quando si rivolgono al grande pubblico. Abituati a discutere e riferire ai loro pari, oppure ad insegnare ai loro studenti, gli antropologi non hanno ancora una solida cultura e pratica della comunicazione pubblica. Il “pubblico”, i portatori di interessi nei vari progetti, le comunità presso cui si lavora, le organzzazioni, le aziende, i politici, gli opinion leaders, il mondo là fuori, insomma, non è composto da altri antropologi e da studenti, bensì da persone di status e condizione completamente diversi. Parlare con il gergo accademico o, al contrario, ipersemplificare pensando di parlare a perfetti profani (se non idioti), raramente si rivela efficace. Saper tarare il proprio discorso in funzione di chi lo deve recepire è una grande abilità professionale che manca in gran parte nel mondo antropologico. Il che fa perdere di efficacia ai messaggi trasmessi e rinforza lo stereotipo dell’antropologia come sapere criptico, da iniziati, contenente chissà quale preziosa verità sull’umano. Più solleticare l’ego, far sentire speciali, certo, ma non fa sviluppare pubblicamente la disciplina….è segno di professionalità saper adottare il linguaggio e lo stile di discorsi e documenti in funzione di chi lo dovrà poi utilizzare.
4) Gli antropologi devono accettare il fatto che la cultura è ovunque, e agire di conseguenza. Impressionanti barriere ideologiche non permettono all’antropologia di uscire dagli angusti spazi dove si è volontariamente rifugiata. L’ossigeno, in quegli spazi, sta per finire. Fuor di metafora, è necessario che gli antropologi vengano formati per agire realmente nel mondo contemporaneo, in tutti i suoi ambiti e aspetti. E’ improtante far capire che in antropologia applicata si devono affrontare contesti di ricerca infinitamente più ampi che nella ricerca accademica di base. Un antropologo applicato non si occupa di sviscerare i significati di un rito particolare dal punto di vista di chi lo esegue, ma lavora su progetti che interfacciano comunità umane, burocrazie, sistemi economici e di potere, logiche di profitto e di salvaguardia, gruppi di pressione, fazioni contrapposti e generatrici di conflittualità diffusa. E’ centrale che l’antropolgo applicato si renda conto che esistono innumerevoli domini culturali specifici che vanno trattati con pari dignità e sottoposti a pari analisi, al fine di elaborare e implementare le migliori policy possibili. Dal punto di vista professionale, un codice culturale di una burocrazia occidentale ha lo stesso valore di quello prodotto dagli abitanti di un villaggio della Nuova Guinea, le logiche culturali che strutturano una multinazionale hanno lo stesso valore, ai fini operativi, che quelli che fanno funzionare i diversi movimenti di azione politica e ecologica. E’ una questione di professionalità responsabile: una volta scelto di operare come professionisti della cultura, le ricerche e le analisi devono interessare tutti gli attori in gioco e non solamente quelli che meglio si adattano alla propria ideologia personale. Credo che un pesante e irriflessivo carico di ideologicità sia ciò che ancora limita lo sviluppo di un’antropologia pubblica moderna capace di analisi sociali adeguate e di valore per la società stessa.