Antropologia e politica a Kampala: Anna Baral ci racconta le elezioni ugandesi

Creato il 21 febbraio 2011 da Kindlerya




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Altri Occhi ha l'onore di ospitare per la seconda volta la penna di Anna Baral (a sinistra, in abito tradizionale), antropologa della Missione Etnologica Italiana in Africa Equatoriale dell'Università di Torino e studentessa PhD a Londra. Esperta dell'etnia del Buganda, regno tradizionale all'interno dell'Uganda moderno, ci racconta le ultime elezioni a Kampala. Le fotografie sono di Steven Lubwama.]

Sono stati annunciati ieri i risultati ufficiali delle elezioni presidenziali ugandesi, passate in secondo piano sui giornali europei per la concomitanza con l’onda rivoluzionaria dei Paesi a sud del Mediterraneo. Yoweri Museveni, al potere dal 1986, ha vinto di nuovo. Badru Kiggundu, presidente della contestata Commissione Elettorale, lo ha dichiarato vincente con il 68.4% dei voti, mentre il suo principale rivale, Kizza Besigye dell’FDC (Forum for Democratic Change) ha ottenuto il 26%; sono seguiti ad ampia distanza dagli altri sei candidati, fra cui Beti Kamya, fervente promotrice del federalismo e prima donna candidata nella storia del Paese. Besigye, ancora prima che i risultati ufficiali venissero confermati, ha dichiarato di non accettarli ed annunciato che verranno presi provvedimenti per porre fine a quello che definisce un “governo illegittimo”.
A Kampala, che nella serata del voto è stata una città fantasma, si percepisce chiaramente la delusione di chi ha investito tutto in un’ennesima campagna elettorale fallita. La lenta ma possente macchina elettorale ha privilegiato l’NRM, movimento di Museveni, unico partito autorizzato a partecipare alle elezioni fino al 2005 e radicato capillarmente nei consigli locali. E’ ormai tristemente noto per le di corruzione e compravendita dei voti. “L’esercito è intervenuto direttamente nel processo elettorale, ma gli occidentali non hanno mosso una critica”, lamenta Steven Lubwama, dalla radio cattolica Sapientia di Kampala. “Le rivelazioni di Wikileaks dimostrano che gli Stati Uniti sono al corrente dell’autoritarismo di Museveni; ma a differenza dagli eventi nordafricani, nessuno si è pronunciato sulle nostre elezioni”.

Sui social network e sulle pagine del Daily Monitor, quotidiano indipendente di Kampala, si susseguono ancora le notizie dei brogli di questi giorni: violenze sugli elettori e giornalisti, ritardo nella consegna del materiale per il voto, scomparsa dei nomi dei votanti dai registri e “ghost voters”. A Gulu, città del nord simbolo della guerra civile che Museveni per vent’anni non è riuscito a debellare, i candidati hanno distribuito polli agli elettori in coda alle urne; a Kasubi, sobborgo di Kampala, venivano intanto reperite schede elettorali pre-compilate a favore dell’NRM.
Molti ugandesi hanno lasciato il loro paese ragioni politiche: Ricardo, emigrato a Londra, è sfuggito alla pena capitale quando le diverse truppe di Museveni si sono rivolte le armi le une contro le altre dopo aver lottato insieme contro il dittatore Obote (1980-1986). “Abbiamo fatto la guerra al suo fianco per la libertà. Ora è un dittatore peggiore di quelli contro cui ha combattuto”.
Venticinque anni di corruzione e scandali hanno segnato un paese che viene tuttavia ancora tenuto in alta considerazione dall’Occidente, anche per il suo ruolo di contenimento del fondamentalismo islamico est-africano (l’Uganda ha rafforzato la sua presenza militare in Somalia dopo i sanguinosi attacchi terroristici dell’agosto 2010 a Kampala). Riforme neoliberiste, investimenti stranieri ed un apparente radicamento della democrazia formale attraverso le elezioni hanno fatto perdere di vista la povertà diffusa, la carenza di assistenza medica e di diritti sofferta dai cittadini (solo poche settimane fa un attivista del movimento LGBT è stato ucciso a sprangate, sull’onda della campagna omofoba lanciata dal parlamentare Bahati). Nelle aree rurali lontane dall’effervescente Kampala, dove un pasto costa meno di 30 centesimi di euro, è facile comprare un voto con un sacco di sale o una barra di sapone. “Ma il sapone finirà, e Museveni sarà ancora lì”, mi dice al telefono Joel, giovane commerciante di uno slum di Kampala. Lui, come molti altri, non ha votato perché convinto che in ogni caso il suo voto sarebbe stato manipolato.

La rabbia nei confronti del presidente è diffusa soprattutto fra i Baganda, principale gruppo etnico del paese stretto attorno alla figura del kabaka, re tradizionale spesso ai ferri corti con il presidente. I Baganda della diaspora ricordano i familiari morti per proteggere Museveni durante la guerra di liberazione dal dittatore Milton Obote, combattuta nell’area di Luwero; qui sono conservate oggi le migliaia di teschi di chi ha dato la vita per la liberazione. “La mia famiglia ha ospitato, aiutato e nutrito Museveni quando scappava da Obote; ora lo guardano seduto in parlamento mentre loro non hanno niente”, commenta Semitego.
Mentre nella radio si susseguono telefonate e messaggi da ogni parte d’Uganda, Betti Atik, rappresentate del DP (storico partito d’opposizione) nella diaspora, trasmette una canzone composta in questi giorni per incoraggiare i connazionali nel paese: “Sorge l’alba/ si alza il sole del mattino:/ continueremo a dormire/ o ci sveglieremo per combattere?”. La battaglia elettorale è ormai persa; si aspetta ora di capire se l’opposizione ugandese contesterà i risultati per vie legali o se, magari ispirata dalle notizie del Mediterraneo, sceglierà di scendere in strada.

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