Antropologia medica: la testimonianza dell’antropologa Laura Barberi

Creato il 07 agosto 2011 da Lupo @morenotiziani

L’antropologa Laura Barberi mi ha inviato una bella un’email qualche giorno fa: è un esempio di antropologia applicata che credo utile e interessante. Non solo per la descrizione dei progetti che coinvolgono Laura, ma per la situazione che l’ha portata a dove è ora. Un esempio di chi ha fatto dell’antropologia una professione. Pubblico il testo con l’autorizzazione dell’Autrice. I grassetti sono mie aggiunte posteriori.

Mi chiamo Laura e sono una non più giovanissima antropologa.
Non più giovanissima, s’intende, solo secondo il cliché sociale della cultura in cui vivo, che chiede donne giovani bellissime ed intraprendenti che possano usare i loro corpi per scopi puramente commerciali e di profitto.
Fatta questa premessa, devo dire che mi piace ciò che fai. Mi riconosco molto nella lotta che conduci affinché l’antropologia possa divenire una professione seria ed accreditata. E’ quello che da anni sto cercando di far capire alle nuove “leve” che, invece, si dedicano ad utopistiche collaborazioni con docenti che, il mondo, ad un certo punto della loro carriera accademica, lo vedono solo dalla prospettiva della cattedra.

Motivo conduttore della mia “lotta” è quello che l’antropologia non può e non deve più rimanere relegata all’interno di una sede universitaria. Così sta perdendo il suo contatto con il Reale (inteso con senso lacaniano) e mantiene viva solo la relazione materna con l’Istituzione.

Mi sono resa conto di tutto ciò dopo aver terminato la mia laurea in filosofia ed aver optato per una specializzazione in una materia molto più vicina agli esseri umani: l’Antropologia (la Filosofia mi ha costruito un modo di valutare le cose che direi “altro” ma rimane sempre contagiata da troppo “iperuranio”).

Ho scelto accuratamente il mio percorso. Volevo laurearmi in Antropologia Medica e continuare quel percorso che già avevo iniziato filosoficamente. Devo dire che è stata dura. All’inizio i docenti mi bistrattavano poiché arrivavo da un percorso filosofico (e Levi Strauss allora!!) ed una grandissima predisposizione nonché passione per la psicoanalisi (tant’é che la mia tesi in Estetica è stata compilata proprio su tali temi).

Un pò alla volta, mi sono resa conto che questa formazione pregressa mi agevolava in modo eclatante in percorsi di studio quali Etnopsichiatria e Etnoscienza ed altri del genere.

Ho fatto la mia tesi in Antropologia Medica (a Ca’ Foscari, unica in Italia, si chiama Antropologia della Salute), una ricerca etnografica tra gli operatori di call center, lavorando per due anni all’interno di una grande azienda qual’è Telecom Italia, ed intervistando alcuni operatori. Prestavo servizio presso questa azienda e la cosa mi ha dato la possibilità di analizzare le strutture societarie in modo molto libero, così anche le relazioni con i miei ex colleghi di TIM e dell’187. Altro che shadowing!

Però, ho dovuto costruire questa tesi dal punto di vista epistemologico, nessun antropologo si era mai avventurato in una etnografia organizzativa, solo sociologi o psicologi: ma dico, le strutture organizzative, specialmente quelle molto grandi, non rispecchiano forse per dinamiche strutturali e ruoli sociali le culture in genere? Le relazioni che i lavoratori tra loro intrattengono non sono forse le medesime della loro vita corrente, lo specchio di ciò che, in quelle ore di lavoro, proiettano all’interno di quella comunità?

Comunque sia da qui ho capito che la professione di antropologo potrebbe essere molto utile anche all’interno di questi contesti aziendali solo che diviene difficoltoso entrarci. E’ la psicologia, religione di uno Stato che porta alla normalizzazione dell’individuo a regnarvici sovrana!

Ho appena terminato un ultimo tentativo: il Master in Counseling nella relazione d’aiuto. E’ una prospettiva nuova ed interessante perché credo che, fondandosi sulla Psicologia Umanistica, tiene conto anche di elementi molto antropologici.

La relazione d’aiuto è fondata principalmente sull’empatia. Sono messi al bando tutti quegli strumenti psicologici che portano all’interpretazione e ahimé anche la mia psicoanalisi preferita. Gli strumenti di un counselor si avvicinano molto ad alcune tecniche di avvicinamento all’alterità previste dal colloquio etnopsichiatrico anche se non prevede la pluralità di competenze nel setting.

Ho scoperto che anche questa può essere una buona professione per un antropologo con questa cittadinanza multiculturale. Ora, faccio un lavoretto part-time che mi permette di mantenermi e nel pomeriggio collaboro, ora ne sono vice presidente, con una Associazione Ucraina. Ho iniziato a lavorare con loro l’anno scorso, proprio in base alle mie competenze, ed oggi facciamo assieme attività progettuali.

Sto lavorando, inoltre, con anziani malati di Alzheimer. Anche questo è un importante tema che potrebbe e forse dovrebbe essere affrontato dall’Antropologia perché pochissime sono le informazioni su questa malattia.

Io il tuo libro non l’ho ancora letto (devo scegliere, purtroppo dove indirizzare anche minime risorse culturali ed ora sono rivolte all’Alzheimer sul quale devo scrivere qualcosa) ma credo e spero che queste riflessioni tu le abbia già fatte. Volevo portarti la mia testimonianza e dirti che non sei solo in questa lotta. In ogni caso, spero possano esserti utili.

Fammi sapere cosa ne pensi, te ne sarei grata.

Le riflessioni che l’email di Laura mi ha fatto nascere si muovono su due binari:

  • la formazione in antropologia non è carente nella teoria, ma nel rapportarsi a un mondo che cerca di soddisfare determinati bisogni;
  • che ci sono persone che non si arrendono e che anzi precorrono i tempi.

Come postilla, Laura conferma anche che lo studio della filosofia è necessario, e personalmente la renderei obbligatoria nel percorso di studio di ogni antropologo.

Da un certo punto di vista, è un peccato che abbia dovuto appoggiarsi a un’associazione ucraina: significa che in Italia la sua prospettiva (non solo di ricerca, mi pare di capire) non è stata ben accolta, mentre è chiaro che va a soddisfare un bisogno impellente e palese. I paesi dell’est stanno diventando una nuova frontiera antropologica, del resto sappiamo poco o nulla sulle ricerche antropologiche che vi si sono compiute.

In Professione Antropologo ho raccontato ad esempio del gruppo di ricerca in antropologia medica dell’Università di Birmingham, che proprio in Ucraina sta portando avanti un progetto per comprendere gli effetti a lungo termine dell’esposizione a basse dosi di radiazioni, con particolare riferimento alle donne in gravidanza e ai nuovi nati esposti a dosi di Cesio 137.

E voi che ne pensate?


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