Gli anni che ci stanno alle spalle sono stati, per molti lavoratori, anche anni di conquiste aziendali, attraverso una contrattazione che si è svolta a pelle di leopardo. Ci sono però coloro che hanno portato a casa risultati e chi ha accumulato sconfitte. Un panorama di macerie e di qualche successo. Spesso le prime vittime di tale sconquasso sono stati donne e uomini privi di un contratto stabile, ovverosia coloro che chiamiamo atipici o precari. E’ vero che in certi casi si è mossa quella che Susanna Camusso ha chiamato “contrattazione inclusiva” ovverosia la capacità del sindacato aziendale e nazionale di immettere nel piatto delle trattative non solo le richieste dei lavoratori in pianta stabile ma anche quelli di collaboratori muniti di soluzioni contrattuali ballerine. Raggiungendo così risultati importanti per partite Iva, Cococo, collaboratori a progetto e via elencando.
Il quadro complessivo resta però deludente e testimonia una discreta lentezza delle diverse categorie nel farsi carico di una rappresentanza generale e non limitata ai lavoratori stabilizzati. E’ proprio Giorgio Caprioli a osservare, a proposito della contrattazione del salario variabile nel 2011, come “quasi la metà degli accordi analizzati o si dimentica o non prevede nessun riferimento ai lavoratori atipici”. Anche se si nota un miglioramento rispetto a precedenti rilevazioni, visto che i casi di tutela sia dei lavoratori a tempo determinato che dei “somministrati” passano dal 18% al 20,9% e i casi di tutela dei soli tempi determinati passano dal 33% al 34,6%. “E’ ancora troppo poco”, osserva Caprioli, “se vogliamo estendere la nostra capacità di rappresentanza anche a questi lavoratori, che ormai rappresentano quasi il 15% del totale”. Spesso è l'azienda che fa resistenza mentre varrebbe la pena ricordare che “questi lavoratori dovrebbero essere pagati di più e non di meno degli altri, per compensare, almeno in parte, il fatto che non possono contare su un posto fisso”.
L’apartheid in qualche modo decretato per i precari non comprende solo i livelli economici, ma soprattutto altri benefici che investono orari, tempi di lavoro, una sorta di welfare aziendale. Sempre Piergiorgio Caprioli in un altro saggio “legge” 56 accordi stipulati in Lombardia sul tema delle pari opportunità. Sono intese che affrontano temi come la flessibilità in entrata e uscita, lo job-sharing, il part-time, il telelavoro, ma anche gli aiuti di vario genere per la cura dei figli, per la formazione, per il rientro della maternità, per gli asili nido. Un'altra ricerca, fatta in questo caso dalla Cgil delle Marche, è dedicata alla “contrattazione di genere” negli anni 2004-2010. Qui si parla di misure volte a favorire la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, attraverso il part time reversibile, la flessibilità oraria in entrata e uscita, il permesso giornaliero retribuito per i lavoratori padri, le indennità integrative, l’attivazione di banca delle ore, interventi formativi, agevolazioni per la frequenza di palestre o piscine, congedi supplementari per lavoratrici madri, aspettative non retribuite.
Miglioramenti importanti, dunque, che si accompagnano ai numerosi accordi “difensivi” che contemplano anche rinunce o tentativi di fronteggiare ristrutturazioni e decentramenti. Resta il fatto che anche nelle intese positive, quasi sempre i grandi assenti sono gli eserciti dei “flessibili”. Una realtà che sollecita una svolta nell’operato dei sindacati se davvero vogliono rimanere rappresentanti di tutto il mondo del lavoro e non di una sola parte. E mentre si discute di un “contratto unico” che dovrebbe cancellare, come una bacchetta magica, la giungla che oggi imperversa nel mercato del lavoro.