Quest’ultimo, anche a costo di una certa “normalità” nel visualizzare sullo schermo un valido lavoro di scrittura, per quanto a volte sin troppo lineare e prevedibile nell’incedere narrativo, con acume e finezza di mestiere si è messo al servizio di una continuità piuttosto fedele alle antecedenti vicende.
Il risultato è un onesto film d’intrattenimento, capace di coinvolgere, emozionare ed offrire spunti riflessivi in odor di metafora su tematiche non nuove ma sempre idonee a suscitare attenzione nella loro attualità, come la violenza pronta a scatenarsi in qualità di fallace e sbrigativo intervento risolutore nel dirimere varie problematiche, quali, in tal caso, quelle relative all’integrazione, in particolare quando entrano in gioco, con tutto il loro carico di ambiguità, la gestione del potere o interessi economici di varia natura.
Cesare/Andy Serkis
Grazie all’iniziale soluzione visuale, non inedita ma sempre affascinante, un succedersi d’immagini avvolte da una patina dall’effetto documentaristico, intuiamo come gran parte della popolazione umana sia stata annientata dalla deflagrante pandemia scatenata dal virus T-113 (“nato” in laboratorio, conseguenza di una serie di esperimenti genetici sui primati con l’obiettivo di creare un farmaco idoneo a debellare l’ Alzheimer).
Sono trascorsi “dieci inverni” dai violenti accadimenti culminanti nella battaglia sul Golden Gate di San Francisco, le scimmie, capeggiate da Cesare (Andy Serkis) hanno costituito all’interno della foresta di Muir, poco distante dalla città, una vera e propria comunità, con le sue strutture ed un ordinamento gerarchico. Tale nutrito gruppo di primati, cresciuto di numero nel corso degli anni (l’ultimo nato è il secondogenito di Cesare e Cornelia, già genitori dell’adolescente Blue Eyes), sembra ormai essere la specie dominante sul pianeta Terra, ma le cose non stanno proprio così: un giorno infatti, ecco avvenire l’incontro, inizialmente non proprio pacifico, con un manipolo di uomini guidati da Malcolm (Jason Clarke), addentratosi nella foresta alla ricerca della vecchia diga, intenzionati a rimetterla in uso e garantire l’uso dell’elettricità al gruppo di sopravvissuti del quale fanno parte, “pochi fortunati geneticamente predisposti ad essere immuni al virus” come spiega colui che sembra essere il loro leader, Dreyfus (Gary Oldman)…
Jason Cark e Serkis
Caratterizzato da un aspetto visivo piuttosto vivido e realista (gran parte delle riprese sono state effettuate nelle foreste di Vancouver e nei dintorni di New Orleans), per una particolare e credo anche innovativa mescolanza fra reale ed irreale, in virtù di una sempre più perfezionata tecnica della performance capture (in sintesi il trasferimento in digitale delle espressioni degli attori), Apes Revolution sacrifica in parte la resa dei protagonisti “umani”, spesso mero contorno o comunque limitati ad una sindacale funzionalità espressiva, quando non di maniera (Oldman in primo luogo, almeno a parer mio), ma stupisce per la conquista sul campo del ruolo di veri mattatori da parte dei primati: se Andy Serkis/Cesare offre un’interpretazione simbiotica a dir poco da plauso (e non a caso Reeves gli offre intensi primi piani, accentuandone l’ergersi in posizione eretta o dedicandogli particolari soggettive), altrettanto encomiabile appare l’interazione fra i vari membri della comunità delle scimmie, dove risalta l’uso della mimica e un primordiale impiego del verbo. Quello che mi ha affascinato nella visione complessiva è il come la perfetta integrazione fra regia, sceneggiatura e aspetti tecnici (la fotografia di Michael Seresin, il lavoro dello scenografo James Chinlund, gli effetti opera di Joe Lettieri), pur nella suddetta prevedibilità dell’andamento narrativo, sia riuscita a rendere palpabile un senso d’angoscia scaturente non tanto dalla consueta, cinematograficamente parlando, visualizzazione distopica di un mondo ormai spacciato, bensì dall’evidente preludio alla nascita di una nuova era (quella rappresentata nell’opera originale del 1969), in un drammatico gioco di specchi fra evoluzione ed involuzione.
Koba/Toby Kebbell
L’incontro uomo-animale si avvale ora della consapevolezza da parte di quest’ultimo di non appartenere più ad una specie sottomessa, mentre il primo continua a presupporne l’inferiorità, sottovalutandone, con evidente acredine, non tanto la capacità di apprendere attraverso l’intelligenza, quanto la possibilità di usarla tramite forme e modalità del tutto coincidenti con le proprie, mediando fra cuore e ragione, uso della forza e possibilità di comprensione reciproca. E’ qui che risalta lo splendido ritratto di Cesare, conscio della propria posizione di leader ma abile allo stesso tempo nel condividere tale ruolo dominante con quanti gli stanno vicino (a partire dall’agguerrito bonobo Koba/Toby Kebbell) e mai dimentico di come sia cresciuto fra gli uomini, dei quali tende a replicare quanto di buono ha conosciuto, a costo di qualche ambiguità, ricordando il fraterno rapporto con Will (James Franco), una particolare intesa che spera di ritrovare in ogni occasione di confronto, nella capacità di perdonare in nome dell’amore, per la propria famiglia e verso i suoi simili. Quest’ultima caratteristica è poi sottolineata dalla costruzione in parallelo con il personaggio di Malcolm, segnato da un tragico passato (la perdita della moglie), intento ora nel tentativo d’intraprendere un nuovo percorso di vita con il figlio adolescente e la compagna Ellie (Kery Russell).
Gary Oldman
Eguale parallelismo è poi evidente fra i citati Koba e Dreyfus, incapaci di dimenticare le trascorse sofferenze, entrambi bloccati in un cieco e ottuso rancore che gli impedisce di mettere in atto qualsiasi mediazione ragionata o mitigata dagli affetti.
Il finale mi è parso sin troppo in crescendo e roboante, ma offre comunque sequenze certo memorabili (la presa del potere di Koba, dopo aver sparato all’impazzata in sella ad un cavallo ed essersi impossessato di un carro armato, il suo apprendere da subito la “lezione umana”, prima far fuori o mettere in condizione di non nuocere quanti non la pensano come lui e poi dedicarsi agli avversari sconfitti) e trova felice conclusione nello sguardo di Cesare con cui si chiude il film, carico di tristezza e disillusione, ormai consapevole dell’impossibilità di un’integrazione civile e rispettosa della “diversità”, al di là di quella espressa solitamente da ogni essere vivente in quanto tale, che si collega con quello invece indomito e pregno di certezza proprio della sequenza d’apertura. Teso e avvincente, forte nell’essenza come nella sostanza, Apes Revolution è un film da vedere, più che valido esempio di “blockbuster con un motivo”, uno di quei rari casi in cui eleganza di stile ed intelligenza della proposta vanno a braccetto nell’offrire un equilibrato e tutto sommato convincente punto d’incontro fra classicità ed innovazione.