L’omonimo racconto occupa metà della raccolta ed è il più importante per esito e progettualità letteraria. «Stimolato da una meditata lettura di Rabelais», Apollinaire cercò di piegare la prosa verso una nuova forma che oscilla tra lirismo e satira. Canovaccio e stile seguono inoltre modalità più teatrali che romanzesche: nel bel mezzo dell’azione i personaggi si lasciano andare a riflessioni auliche e inverosimilmente persino le levatrici non si esimono dall’accostare i cannoni da guerra a vigorosi priapi. “Il poeta assassinato” narra le vicende di Croniamantal, dal suo concepimento quasi leggendario fino alla morte. Attraversato da palesi spunti autobiografici, l’autore vi incunea come leva principale del racconto l’amore del poeta per Tristouse, che farà da base terrena per la vis poetica dell’infelice artista. All’interno della novella, che con certosina laboriosità è disseminata di tematiche volutamente contrastanti tra loro, Apollinaire si muove con una pluralità di linguaggi che denotano i suoi multiformi interessi. Vi è quindi il richiamo ai miti greci e latini, all’eleganza decadente dell’enumerazione di città e oggetti esotici, a certa lirica provenzale, a satira mordace, al libertinismo sadiano (di cui è un perfetto esempio “Le undicimila verghe” (1907), ideale e ancora più feroce prosecuzione dei culti del divin marchese), a inserti metaletterari, all’accostamento senza senso di suoni e lettere tipico del futurismo. Soltanto il finale recupera una vera unitarietà d’intenti e cifra stilistica e ciò lascia intuire ragionevolmente come su di esso Apollinaire volesse far confluire il suo messaggio. Il poeta Croniamantal viene assassinato da una folla che egli aveva apostrofato con il tono profetico che ha sempre l’alta poesia: «Il tuo eroe, plebaglia, è la Noia, che porta con sé la Sventura». E ancora «è la Noia e la Sventura, il mostro nemico dell’uomo, il Leviatano vischioso e immondo, il Behemoth macchiato di stupri, di violenze e del sangue dei poeti meravigliosi». La novella, come detto, fu scritta durante gli anni che portarono allo scoppio della Prima Guerra Mondiale.
L’irrazionalità montante e il nichilismo di un’epoca tormentata sono ben esemplificati da una folla che si lascia trascinare dai pericolosi miracoli laici di Tograth piuttosto che dai moniti morali di Croniamantal. Al poeta, come fa dire sconsolatamente Apollinaire dall’uccello del Benin, non resta che la costruzione di «una profonda statua di nulla, come la poesia, come la gloria». Il resto delle novelle stride vistosamente (volutamente?) con quella che dà il titolo all’opera. Queste si rifanno alla migliore tradizione dei racconti fantastici che va da Gautier a Hoffmann e Poe. Sono omaggi che non hanno nulla da invidiare all’originalità di quei maestri ma che nella loro brevità (3/4 pagine al massimo) si affastellano senza un senso delimitato e così stancano presto. Una disposizione più cinematografica che prevedesse come centro e climax “Il poeta assassinato”, inframmezzata dalle novelle più brevi avrebbe reso la lettura più stimolante. Anche perché gli spunti narrativi sono in gran parte coinvolgenti. Ecco allora che in “Il re luna” il protagonista si perde nella caverna fantastica del defunto re Luigi II di Baviera, ove non mancano invenzioni che permettono di copulare con donne del passato, il tutto permeato dal criptico simbolismo di Apollinaire. “La favorita” sovverte radicalmente stile e si rifà al naturalismo francese e al verismo italiano. Altro racconto che riporta alla mente questa volta Maupassant è “La dipartita nell’ombra”, dove un oscuro commerciante ebreo rivela al protagonista che un corpo perde l’ombra trenta giorni prima di morire. Appena fuori dal negozio egli si accorge che la sua fidanzata non l’emana più. La chiusura della raccolta spetta a “Il caso del brigadiere mascherato” e, sebbene come rivela la postilla finale, essa sia stata aggiunta a conflitto in corso, migliore epilogo non poteva trovarsi. L’ultima novella infatti abbandona il tono strano e fantastico delle precedenti e ritorna al lirismo a lui più congeniale. In un affettuoso e significativo cammeo finale tornano tutti i personaggi degli altri racconti e in appena quattro pagine trovano spazio alate immagini derivate dall’esperienza di guerra che lo stesso Apollinaire provò in prima persona, essendosi arruolato volontario. A imperitura memoria questo verso: «O trincee, cupe sorelle delle mura». Se nella prima metà del secolo scorso il nemico era visibile perché si palesava sotto sembianze militari, nel Duemila esso si nasconde subdolamente dietro le maglie dell’inevitabilità economica. C’è da augurarsi che i poeti, avanguardie del popolo reazionario, sappiano riconoscerlo e, oggi come allora, combatterlo con il coraggio dei martiri invece che subirne l’inesorabilità.