Apologo zen

Creato il 18 aprile 2011 da Malvino

foto:flickr


È da 35 anni che Nanni Moretti ci parla di sé. Piaccia o non piaccia ciò che dice e come lo dice, il sé di cui ci parla aspira a darci la chiave di lettura di un mondo, e in ciò possiamo dirlo artista. Negli anni questo mondo è andato senza dubbio dilatandosi e l’universo asfittico di Io sono un autarchico e di Ecce bombo si è ampliato in largo (Sogni d’oro e Bianca) e in lungo (La messa è finita e Palombella rossa), e poi di nuovo in largo (Caro diario e Aprile) e ancora in lungo (La stanza del figlio), e ancora in largo (Il caimano) e ora, ancora, in lungo (Habemus Papam).Quando dico in largo, mi riferisco alla platea alla quale l’artista si rivolge e siamo così passati dalla cerchia di amici alla tranche generazionale, a un’area politico-culturale, fin quasi a metà del paese; quando dico in lungo, invece, mi riferisco alla profondità del disagio – perché Nanni Moretti è artista del disagio, in tutto e sempre – che da quello del giovane Michele Apicella è diventato il disagio dell’anziano cardinal Melville, acquistando – appunto – profondità esistenziale. Pur così dilatato in lungo e in largo, il mondo del quale Nanni Moretti ci offre la sua chiave di lettura è tuttavia sempre lo stesso, e in ciò possiamo dirlo artista coerente, fedele a una filosofia che negli anni non ha mai smentito se stessa, né sembra essere stata smentita dai fatti, almeno come sentiti: da Welt si è fatto Weltall, ma si tratta sempre dello stesso mondo nel quale l’uomo soffre un cronico “deficit di accudimento”.È questa madre che non è abbastanza sollecita ai bisogni del poppante che dà questa urgenza di cioccolato, è questo Pci non abbastanza attento a quello che si muove nella società italiana degli anni ’80 che produce la crisi della sinistra, è questo presente che non ha cura del passato che condanna il paese. E il cardinal Melville arriva quando tutto questo è già compiuto: quando a Roma non c’è quasi più una sola pasticceria che sappia preparare una Sackertorte come Dio comanda, quando molte sale cinematografiche sono state costrette alla chiusura, quando molte tazze sono ormai sbreccate, quando tra i conoscenti e gli amici le coppie scoppiano, e le madri si suicidano, e i padri si innamorano di ragazzine, e quasi più nessuno calza più scarpe decenti. Il paese ha perso la bussola e su tutto incombe una grassa mediocrità contenta di sé: ogni decisione pesa perché nessuno sa più dove iniziare a mettere le mani, tranne i ghepensimì che le mettono dappertutto.Il Papa e il Vaticano c’entrano poco o niente: si offrono come espedienti, e vengono trattati con la delicatezza di chi vuole riconsegnarli intatti dopo l’uso. All’autore interessava solo l’allegoria della grande indecisione dinanzi alle grandi responsabilità. In questo senso, Habemus Papam è un apologo zen.


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