La luce era radente sull'acqua, a quell'ora. La separazione tra dentro e fuori era nettissima.
La donna grande, dall'alto delle sue prime certezze, e l'uomo piccolo (regolarmente equipaggiato di braccioli - due stagioni di corso di nuoto non sono riuscite a dissipare tutte le difficoltà...) guardavano giù dentro il lago domandandosi se mai ce l'avrebbero fatta.
L'acqua era buia.
Avevano sulle labbra il sorriso stirato dall'incertezza: tutti lo conosciamo, tutti l'abbiamo avuto uguale, almeno una volta a quell'età. Magari un pomeriggio.
Loro guardavano noi, che li guardavamo ancora più incerti, con l'incredulità di quello che stavano per fare. Che dovevano fare. Saltare dentro l'acqua, "tuffarsi", dalla piattaforma dei tuffi, quella vera, alta abbastanza lassù sopra una prima volta.
Era uno scambio di sguardi fortissimo, direbbe il poeta; a ripensarci, soltanto a pochi giorni di distanza, è stato un momento sospeso tra il desiderio di saltare, la paura di farlo, l'incertezza assoluta negli occhi di coloro che dovrebbero rassicurarti.
Non so se quel momento, quell'infinitesimale lunghissimo attimo, sia stato sufficiente a far di loro persone migliori. Non so se se lo ricorderanno per il resto dei loro giorni (magari no, magari se lo sono già dimenticato...) ma il passaggio del dubbio, del senso del limite, della paura in quei loro occhi fiduciosi è un effetto che lascia qualche scia di riflessione. Per giorni.
Non so loro. Io, in quel momento, ho sentito che avevo paura con loro, vivevo il loro dubbio, assaporavo lo stesso senso del limite.
Il lago era immobile, fermo come una pozzanghera. Ho smesso di respirare per un attimo.
Poi, si sono tuffati.