Brucia, brucia ancora, brucerà fino quando si esaurirà il carburante stivato nei serbatoi della raffineria Mediterranea di Milazzo. FederPetroli tranquillizza: “Al momento l’incendio è domato dai Vigili del Fuoco e da altre squadre di sicurezza e si procede con intervento mirato sino a totale bruciatura del prodotto ….. Nonostante la nube a seguito dell’incendio, non vi sono situazioni dannose per l’ambiente e l’aria circostante”.
E aggiunge: “La Raffineria di Milazzo dopo gli interventi negli anni scorsi sull’ammodernamento delle infrastrutture, risulta una delle più all’avanguardia a livello europeo con impianti di raffinazione di alta efficienza tecnologica”. Anche il sindaco cerca di minimizzare mentre spiega che non era necessario procedere con l’evacuazione degli abitanti, terrorizzati dalle fiamme che divampavano altissime e visibili per diversi chilometri dai comuni della fascia tirrenica del messinese. E come no. il sito istituzionale dell’impianto recita “La nostra vision è produrre combustibili e carburanti di alta qualità attraverso le più moderne ed innovative tecnologie e risorse umane motivate e professionali nel rispetto per l’ambiente, la salute e la sicurezza delle persone”. Sic.
L’esperienza ci insegna a sospettare di certe rassicurazioni, che siano o non espresse in quel famigerato gergo della cultura d’impresa. A volte basta l’iniziativa personale di un singolo – è successo per l’incostituzionalità del Porcellum – a scoperchiare un pentolone di veleni. E l’anno scorso un abitante di Milazzo si è fatto interprete della preoccupazioni dei suoi concittadini e si è rivolto ai giudici per denunciare la Raffineria a causa delle esalazioni che negli ultimi anni hanno intossicato la città: “Siamo stanchi di doverci chiudere in casa per sfuggire agli odori nauseabondi emanati dalla fabbrica”.
L’impianto, rivendica il sito, è una Società Consortile per Azioni i cui azionisti Eni S.p.A. e Kuwait Petroleum Italia S.p.A., rispettivamente proprietari del 50% del pacchetto azionario, sono gruppi industriali a vocazione internazionale che, per le loro dimensioni e importanza delle attività, svolgono un ruolo rilevante rispetto al mercato, allo sviluppo economico e al benessere delle comunità in cui sono presenti.
E ci informa che l’Eni (si, quella di Scaroni, Descalzi e della Marcegaglia) si contraddistingue per il proprio impegno nell’ambito dello sviluppo sostenibile: valorizza le proprie risorse, contribuisce allo sviluppo economico delle comunità nelle quali opera, è attiva nel miglioramento delle proprie prestazioni ambientali investendo nell’innovazione tecnica, persegue l’efficienza energetica ed è attenta agli effetti indotti dalla proprie attività sul cambiamento climatico.
Sarà per via di queste credenziali che non stiamo tranquilli, sarà perché si tratta di Mezzogiorno, dove per anni i cittadini di Taranto sono stati rassicurati sulle emissioni dell’Ilva, per quanto ancora nessuno sa cosa si nasconda sotto l’Acna di Cengio, sarà perché è la Sicilia cui si impone il Muos, sarà perché è Milazzo è stata identificata nell’epoca d’oro dell’industrializzazione al Sud come “adatta e favorevole all’insediamento di fabbriche”, la Raffineria, la Centrale Edipower, la Centrale Termica di Edison e anche le Acciaierie, quelle Duderfdofin Nucor, tutte a insistere in una combinazione rischiosa di effetti e inquinanti in una zona industriale contigua alla città, sarà perché stanno vincendo una guerra per limitare le garanzie e i diritti dei lavoratori, che incrementerà insicurezza e danni alla salute e all’ambiente, proprio perché vuole sancire che i padroni sono tali dentro e fuori dalla fabbrica, che a loro non spettano sacrifici e nemmeno l’obbligo morale e produttivo di investire in tutela e salute, sarà perché svendite e privatizzazioni rendono sempre più arduo il controllo sulle prestazioni, sulla sorveglianza, sul rispetto degli standard sanitari e ambientali.
Fossimo affetti da dietrologia, potremmo supporre che certi incidenti non siano del tutto casuali, proprio come certi incendi boschivi appiccati per alienare territori e cederli alla speculazione, che certe aziende pubbliche o miste siano un fardello pesante, che la compatibilità ambientale e il rispetto delle leggi rappresentino carichi onerosi per azionariati avidi e alla ricerca di meno impervi mercati e mano d’opera più arrendevole e economica. E che quindi sia meglio sbarazzarsene.
Successe così con l’Ilva un «ferrovecchio» secondo i Riva, un “gioiello” secondo Prodi che ne trattò la vendita per una manciata di miliardi di lire. E che invece ha macinato profitti formidabili, gran parte dei quali imboscati in paradisi fiscali, alcuni rientrati esentasse grazie allo scudo fiscale di Tremonti. La dinastia privata ha sfruttato gli impianti senza investire se non lo stretto necessario per tenerli in funzione, mettendo in conto di abbandonarli, insieme a operai e città inquinata, quando non sarebbero più stati redditizi. E intanto mentre la famiglia consolidava la sua posizione nel Gotha imprenditoriale italiano, contribuendo a qualche fallimento anche di quelli promossi ad arte – era nella cordata dell’Alitalia – seminava morte, introduceva un regime dispotico nella fabbrica e nella città, esercitava il ricatto come policy aziendale, sviluppava corruzione proprio come un brand competitivo e vincente, tutte “attività” non certo ignote ai nostri gioielli di famiglia, ben conosciute dalle nostre imprese pubbliche. Che si dedicano da anni all’esportazione di veleni, alla circolazione di mazzette, alla diffusione di malaffare in nuove geografie, quelle di serie B, che le nostre aree depresse non bastavano più.
Ma possiamo stare tranquilli, questo governo ancor più di quelli che l’hanno preceduto, i suoi sponsor, i manager di riferimento, stanno agendo con determinazione per la creazione di un terzo mondo interno, entro i confini, dove sia possibile pagare i lavoratori come in Bangladesh, dove i loro diritti siano eliminati per decreto, dove qualità di vita sia un lusso che i cittadini non possono permettersi, come un ambiente pulito, un paesaggio tutelato, bellezza mantenuta e a disposizione di tutti, istruzione pubblica, conoscenza. Con lo Stato, i suoi beni e la sua sovranità si cancellano anche la sua missione sociale, l’obbligo di assistenza che abbiamo pagato, pensioni versate come un salario differito e che vengono minacciate come immeritati privilegi.
Si, ormai sono un lusso la cura, affidata a soggetti privati, l’arte e la cultura, ridotti a merce da gestire con le regole del marketing, l’ambiente e le risorse, che valgono solo se possono essere convertiti in profitto. Pare che l’unico diritto che ci resta, diventato desiderabile da quando il lavoro ha perso ogni valore, e tolto anche quello a morire con dignità, sia la condanna alla fatica.