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New York (Stati Uniti) – Dal trono al banco degli imputati nel giro di poche ore. È quanto accaduto alla Apple negli scorsi giorni, passata dal celebrare il primo posto per valore del brand al doversi difendere dall'accusa di elusione di 74 miliardi di dollari.
Con i suoi 185,07 miliardi di dollari di valore, l'azienda fondata nel 1976 da Steve Jobs, è un brand amato «a prescindere dal valore del suo titolo in Borsa» come ha evidenziato Nick Cooper, managing director di Millward Brown Optimor che ha redatto la classifica.
Mentre il BrandZ Top 100 Most Valuable Global Brands incorona la Apple come miglior brand al mondo, però, dopo l'apertura di un'indagine dell'Unione Europea per violazione delle norme antitrust a marzo, il Congresso degli Stati Uniti ha stilato un rapporto di 40 pagine sulla società, la cui conclusione lascia poco spazio ai dubbi: elusione per 74 miliardi di dollari tra il 2009 ed il 2012.
L'indagine è riuscita a ricostruire una vera e propria ragnatela di filiali estere - alcune delle quali semplici scatole vuote - che ha permesso alla società di pagare, ad esempio, lo 0,5 per cento di imposte su 22 miliardi di profitti, come accaduto alla Apple Sales International in Irlanda nel 2011 o lo zero per cento su 30 miliardi due anni prima.
«Apple», ha evidenziato il senatore democratico Carl Levin – sostenuto anche dai repubblicani - durante la requisitoria, «non si accontenta di spostare i suoi profitti nei paradisi fiscali offshore, cerca l'esenzione totale, pretende di non avere residenza fiscale da nessuna parte».
La mela apolide. Il motivo di una così alta elusione è che le società apolidi non hanno sede fiscale e – dunque – non pagano tasse. È questo il pensiero fatto intendere martedì da Tim Cook (nella foto), chief executive della multinazionale, nell'interrogatorio davanti alla commissione del Senato che sta indagando sul caso.
A ricoprire un ruolo di primo piano nella ragnatela Cork, in Irlanda, sede della Apple Operations International, nella quale, secondo le indagini, confluirebbero altre 14 società del gruppo battenti bandiera irlandese, tranne la Apple South Asia Pte Ltd con sede a Singapore, la “Svizzera del 2020”.
È dalla cittadina irlandese che si diramano le divisioni internazionali (Europa, Medio Oriente, India, Africa ed Asia) del gruppo, nonostante gli investigatori non siano riusciti a trovarne la sede fisica né, soprattutto, la residenza fiscale. Eppure proprio da qui, stando alla ricostruzione, sono passati i 74 miliardi di dollari elusi, che hanno permesso alla società di risparmiare tasse per 44 miliardi.
Per questo gli investigatori del Senato – che parlano apertamente di “alchimia fiscale”- sono certi che la società irlandese operi al 100 per cento negli Stati Uniti. A riprova di ciò le stesse riunioni del consiglio di amministrazione irlandese, svolte nella sede statunitense.
Dublino non ci sta ad entrare nella lista dei paradisi fiscali anche perché, secondo la propria ricostruzione, essendo controllate direttamente dagli Stati Uniti le società del gruppo Apple situate in Irlanda non sono tenute al pagamento delle tasse. Per gli Usa, invece, il reddito è generato all'estero. Da qui il “cavillo fiscale” utilizzato per l'elusione.
Un sistema, questo, che permette alla società di rimanere nella legalità, a meno che non decidesse di far rientrare i capitali negli Stati Uniti, cosa che – con l'emissione delle obbligazioni per 17 miliardi di dollari a fine aprile, che ha permesso di non pagare 9 miliardi di dollari di tasse – sembra essere ancora più lontana. A meno che gli Stati Uniti non decidano di accettare la richiesta di Cook: una riforma del sistema fiscale che permetta alle aziende di rimpatriare capitali con un'aliquota inferiore al 10 per cento.
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