[Approfondimento] La vita di Irène Némirovsky di Olivier Philipponat, Patrick Lienhardt

Creato il 17 febbraio 2015 da Queenseptienna @queenseptienna

Titolo: La vita di Irène Némirovsky
Autore: Olivier Philipponat, Patrick Lienhardt
Traduzione di: G. Cillaro
Editore: Adelphi
Anno: 2009
ISBN:  9788845928666
Numero pagine: 515
Prezzo: € 14,00
Genere: biografia

Contenuto: Di lei credevamo di sapere tutto: dalla nascita a Kiev nel 1903 alla morte ad Auschwitz nel 1942, dall’avventura del manoscritto di “David Golder”, inviato anonimo nel 1929 all’editore Grasset, al manoscritto salvato di “Suite francese”, apparso nel 2004 e tradotto ormai in trenta lingue. Sbagliavamo: Philipponnat e Lienhardt ce lo dimostrano in questa biografia. Per tre anni, costantemente affiancati dalla figlia di Irène, Denise Epstein, gli autori hanno consultato le carte inedite della scrittrice: la corrispondenza con gli editori come gli appunti presi a margine dei manoscritti, i diari come i taccuini di lavoro. Un’opera che non solo fa risorgere dall’oblio con una vividezza sorprendente le diverse fasi dell’esistenza di Irene (l’infanzia nella Russia prima imperiale e poi rivoluzionaria, la fuga prima in Finlandia e poi in Svezia, la giovinezza dorata in Francia, i rapporti con la società letteraria degli anni Trenta, gli sconvolgimenti della guerra, gli ultimi mesi di vita nel paesino dell’Isère dove si è rifugiata con la famiglia), ma coglie e restituisce tutte le sfaccettature di una personalità complessa, affrontandone senza remore di alcun tipo anche gli aspetti più discussi e contraddittori.

Approfondimento: Pare che Irène Némirovsky iniziasse a scrivere per sconfiggere la noia. Nei suoi primi romanzi si raccontano storie amorose in bilico tra  il lusso e  la frenesia della vita moderna. La stessa autrice è travolta da una stagione di feste e da quella grossolana allegria che ricorre nel Grande Gatsby:

 “il mondo intero danzava quella frenetica farandola iniziata all’indomani dalla guerra, finita all’improvviso tra il 1930-31″

Sono anni di frivolezze,  ma anche di relativa serenità.  L’abbagliante vortice di mondanità che si muove in Europa nasconde tuttavia una calamità distruttiva. Si sta, di fatto, all’interno dell’occhio di un ciclone. C’è chi se ne avvede, magari ne ha solo un velato presentimento. Anche questo spinge la Nèmirovsky verso la scrittura, guidata dal senso di un’urgenza di chi sa  di avere poco, pochissimo tempo. Il volume della Newton Compton che raccoglie gran parte delle sue opere supera abbondantemente le 1500 pagine. Fitte.

In esse si narra anche della tradizione ebraica, per alcuni un incomodo da cui prendere le distanze, da rinnegare anche a costo di condurre se stessi al più radicale degli sradicamenti:

“Quando il buon Dio dà le noci, non abbiamo più denti per romperle” .

I personaggi traggono spunto dalla realtà che l’autrice trova intorno a sé e coglie con  sguardo disincantato. È anche per questo che l’accusa di antisemitismo la coglie di sorpresa: Eppure io li ho visti così, si difenderà.

Il torto di Irène Némirovsky è l’aver lasciato emergere una paura che divora dal suo interno lo stesso popolo ebraico, dove si insinuano distinzioni, separazioni. Non tutti, per esempio, accettano di parlare l’yddish:  l’identità ebraica è un fenomeno assai complesso, a tratti inconsapevole e insostenibile. Esaminando il romanzo Yoshe Kalb di I.J Singer ricordavo che essa si può acquisire ma non perdere; non ha del tutto a che vedere con l’etnia ed è lungi dall’essere soltanto un fenomeno religioso.  Vi sono praticanti e non praticanti, certo, ma questo non fa venir meno il senso dell’appartenenza. Anzi.  È proprio quest’aspetto ad accomunare Irène Némirovsky  a Franz Kafka. Chi non ha la consolazione dei libri sacri, si perde nelle vie dell’introspezione più ossessiva. A entrambi, sia praticanti che non praticanti, la Legge appare nella sua insondabilità e forza, in un identico destino che di tutto ha tratto un fascio.

Ebbene la vita e i romanzi di Irène Némirovsky raccontano la sorte di coloro che godono di qualche privilegio o lo pretendono, ma anche le avversità che devono affrontare una volta che la ruota gira per il verso contrario.

Un romanzo che val la pena di ricordare è Les Chiens et les Loups, scritto in seguito all’emozione provata dalla lettura de I quaranta giorni del Mussa Dagh di Franz Werfel:

Storia di un uomo che ritorna da straniero fra i suoi e si scopre legato da vincoli più forti di quanto avesse immaginato, ed è costretto ad accettare la sorte della sua razza e del suo paese.

Quelle di Irène Némirovsky non sono nemmeno una denuncia o una presa di posizione, ma la narrazione di uno stato di fatto, di una condizione che la  riguardano da vicino, e insieme a lei sua madre – con la quale non avrà mai buoni rapporti e che le ispirerà il personaggio di Jezabel – e  suo padre – la cui morte (per crisi polmonare) le ispirerà quella del vecchio James Bolhum ne La pedina nella scacchiera.

Il criterio impiegato da Irène Némirovsky , si dice, è quello di Turgenev:

 Prima di tutto abbozzare i personaggi nei minimi particolari, sottolineare soltanto i tratti salienti, poi animarli.

Non bastano certo questi rapidissimi tratti per cogliere l’essenza della scrittrice. Occorre considerare anche i luoghi in cui è nata, vissuta, quelli da cui è fuggita, emigrata:

Irène Némirovsky era una scrittrice francese che il caso aveva fatto nascere a Kiev, cosa che dice molto, ma non abbastanza. Perché prima ancora di imparare a parlare il russo, si esprimeva in francese, e francese non lo sarebbe stata. Non otterrà mai la cittadinanza, cosa che fu fonte di notevoli grattacapi ai tempi del maresciallo Pétain durante l’occupazione tedesca e le leggi razziali.

È superfluo, tuttavia, insistere troppo sulla nazionalità di un artista, ovvero domandarsi se fosse una scrittrice russa che si esprimeva in francese o una scrittrice francese che aveva fatto suo un soggetto russo. Di entrambe le culture aveva  lo spirito, cui univa quello ebraico.

Sia la Francia che la Russia le hanno dato i natali. Sia in Francia che in Russia la condizione degli ebrei non era facile.

In Russia gli ebrei che si allontanavano dal ghetto rischiavano l’arresto, subivano  i pogrom e le rappresaglie irrazionali che scoppiavano al minimo pretesto.

Dal suolo francese lo straniero veniva allontanato, e con esso l’ebreo. Ecco le prime operazioni di raggruppamento, i primi convogli in partenza verso una destinazione ignota.

“Dall’ottobre 1940 la forza pubblica è autorizzata a discrezione dei prefetti, a internare gli ebrei in campi speciali”

Denise Epstein, figlia di Irène Némirovsky, non aveva ancora l’età per afferrare cosa stesse accadendo. Vedeva

una Francia in divisa da gendarme che strappava una madre alla figlia, una moglie al marito… [Sopravvivere e Vivere, Adelphi]

Le uniche cose che Irène Némirosky lasciò ai propri cari non furono che fotografie e un manoscritto (il quaderno di mamma) chiusi dentro un baule.

La madre di Denise Epstein è rimasta là, dentro quelle pagine. È diventata letteratura.

Denise Epstein ha inseguito senza posa la memoria vivente e letteraria di sua madre. Memoria concreta di qualcosa che non poteva conoscere appieno perché all’epoca si era bambini e perché in presenza dei figli si evitava di parlare di qualsiasi problema, o anche di affrontare una semplice discussione.

Ai figli bambini di allora non rimanevano che  cimeli, anticaglie da museo da interrogare. Persisteva, in età adulta, la tentazione di non porsi domande dolorose, di non voler sapere niente di ciò che era stato. Ma su una simile reticenza è difficile costruire un avvenire, come sopportare, da soli, un passato non privo di incognite:

Quando non ci si può aggrappare a niente, né a un’identità, né a una religione, né a una tradizione, non è semplice trovare una via d’uscita.

Con queste parole Denis Epstein esprimeva il trauma degli enfants cachès, i cui genitori non tornarono più:

Un giorno mi sono resa conto che avevo l’età per essere la madre di mia madre, e i ruoli si sono invertiti.

Sua madre è tornata in altro modo, nei panni che vestiva, ora, la figlia stessa.

Ne è seguito un risveglio o, meglio, una nuova consapevolezza. Da cui l’urgenza di darsi a una qualche forma di militanza che abbattesse le barriere e facesse parlare una memoria silenziosa che non aspettava altro che emergere e di essere tramandata. E soprattutto di non essere strumentalizzata o politicizzata.


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