Appunti cambogiani/8 - Pepi

Creato il 04 settembre 2015 da Mapo
Kampot, 4 settembre
Bianco, rosso e verde. Il pepe, o meglio "i pepi" che crescono quaggiù sembrano essere anche patriottici, oltre che squisiti. Kampot, una cittadina a poca distanza dal mare, nel sud del paese, è famosa in tutta la Cambogia per questo condimento a pallini, che cresce lentamente su piante verdi e rigogliose, avvinghiate a pali di legno scadente ricavato dalle foreste circostanti. I magici chicchi vengono esportati un po' ovunque, in grossi sacchi di juta che si accumulano sul retro dei Tuk Tuk stracarichi che fanno la fila da qui al vicino confine con il Vietnam.Il business, fino a qualche anno fa, era in mano ai Khmer, con le piccole fattorie a gestione familiare riunite in cooperative. Perlopiù edifici a due piani, quello sopra abitabile ed accessibile da scala di legno esterna, quello sotto lasciato aperto per gli attrezzi da lavoro, il parcheggio della moto e l'immancabile amaca tesa tra due pilastri, per rilassarsi all'ombra nelle ore più calde della giornata. Dalla strada in terra rossa che si snoda a qualche Km dalla città si vedono punteggiare qua e là la campagna verde smeraldo, sembrano barche a due piani in questo mare di risaie a perdita d'occhio. Ora però gli investitori stranieri vanno per la maggiore. Cinesi, soprattutto, ma anche europei, tailandesi e ricchi coreani, che qui possono ancora contare sulla manodopera a basso costo "(1,5 dollar per day!" spergiura un olandese pratico del posto) e una legislazione compiacente che ha permesso in pochi anni di consumare buona parte delle foreste dell'intero stato (ne restano solo il 25% circa). La vicinanza del mare, il clima temperato, e l'alternanza tra le stagioni monsoniche con quelle più calde e secche fanno il resto. La piantagione che visitiamo è di un ricco proprietario irlandese. Qui hanno smesso di usare la legna, sempre meno disponibile e di scarsa qualità, e ora le piante di pepe si arrampicano su cumuli di mattoni rossi. I piccoli rametti hanno già i primi chicchi, verdissimi.
Finché si possono ancora schiacciare tra pollice e indice significa che non sono ancora maturi. Il sapore è intenso e purissimo. Il trucco sta nell'assenza di orpelli chimici o altri metodi industriali nella coltivazione. La concimazione qui si avvale di ossa di mucca triturate e sterco di pipistrelli, a quanto pare particolarmente adatto allo scopo, oltre che parecchio costoso. Con i soldi del pepe il proprietario ha costruito sei bungalow sulla collina, con tanto di piscina e ristorante di lusso dove ogni piatto, manco a dirlo, si arricchisce dell'antica spezia che qui, impacchettata in carta colorata ad uso e consumo dei turisti, è inutilmente costosa. Più tardi andremo in una bettola fuori città, oltre il lungo ponte sul fiume, dove, dopo lunga contrattazione, spunteremo un prezzo abbordabile per qualche confezione di pepe. Sul piatto della bilancia anche la promessa di fare pubblicità all'azienda agricola una volta tornati in Italia. Volendo fare ordine nei colori possiamo dire che il pepe cresce verde ed è ottimo anche crudo, ma non può essere conservato per lungo tempo. Una volta sbucciato, dopo essere passato nell'acqua calda diventa bianco e, infine, se lasciato a lungo essiccare al sole se ne ricava il pepe nero, in assoluto quello più resistente. L'inglese stentato della nostra guida rende il processo per ricavare il pepe rosso al momento incomprensibile. Si chiama Thy, ha un biglietto da visita molto professionale "che gli ha fatto una signora tedesca che conosce" e un indirizzo mail dedicato: thytuktukdriver@gmail.comCi scarrozza su e giù per le campagne dalle 8 di stamattina. Il soffitto dell'abitacolo è rivestito da una plastica con motivi floreali e ogni qualche Km la moto produce strani rumori, così lui rallenta e senza interrompere la marcia aggiunge un po' d'acqua al motore. "I giapponesi che trasporto piangono - racconta ridendo - quando vedono che queste moto che sono fatte per due, qui le usiamo per trasportare 6 persone". Finché ride, mi sembra di capire, non c'è molto da preoccuparsi.
Attraversiamo lunghi campi da cui spuntano i ciuffi verdi delle piante di riso. Tra una e l'altra si scorge il terreno arido, in questa stagione delle piogge inusualmente povera. Se non piove, niente riso, con tutte le ripercussioni economiche sulle povere famiglie che si possono immaginare. Qua e là spuntano alberi da frutto: mango, perlopiù, ma anche Durian, un piccolo frutto grande circa come una pesca è simile a un agrume pieno di spine, tristemente famoso per un odore sgradevole che, per inciso, ne vieta il trasporto sui mezzi pubblici. In questa provincia se ne producono a quintali, con buona pace degli abitanti. Siamo in una delle zone della Cambogia, a pochi Km dal confine con il Vietnam, tra le più bombardate in assoluto dagli americani, anche qui impegnati in una delle loro epiche "guerre giuste" in un mondo allora ancora spaccato in due tra buoni e cattivi. Secondo la "Kampot survival guide" un ironico periodico gratuito in bianco e nero stampato in ciclostile che si trova un po' ovunque, tra il 1965 e il 1974 gli USA lanciarono in Cambogia circa 3 milioni di tonnellate di bombe, su circa 115,273 obiettivi. I lunghi campi arati qui sono tristemente solcati da grosse pozze d'acqua profonde più di un metro. Ora ci nuotano i bambini, scansando fiori di loto e paperelle. Sulla via del ritorno passiamo da un grande lago artificiale. Tira un po' di aria, i bambini percorrono in bicicletta le strade coltivate e qualcuno pesca in solitudine e sulle fertili rive abbondano i campi coltivati. È un posto quasi paradisiaco, senza rifiuti e rumori assordanti. Thy spegni il motore su un terrapieno asfaltato che affaccia sul lago placido. Sto scattando una foto quanto comincia a raccontare di questo lago artificiale, scavato praticamente a mano da migliaia di cambogiani trasportati qui di forza durante il se guidarono regime dei Khmer rossi (1975-1979). In pochi giorni dopo la presa di Phnom Phen i comunisti di Pol Pot uccisero tutti gli oppositori politici e lo loro famiglie e deportarono decine di migliaia di persone dalla città, dove si erano rifugiati per scappare a lunghi anni di bombardamenti dei B52 americani, alle campagne. Una delle prove più in voga tra i "Khmer rouge", come li chiamano qui, per decidere la vita o la morte di qualcuno, era metterlo davanti a un albero. Se sapeva arrampicarsi era un valido agricoltore e doveva partecipare alla costruzione di infrastrutture per la "nuova Cambogia", se non ci riusciva era un borghese acculturato, inservibile è pericoloso; andava abbattuto a bastonate. Sulle sponde di questo lago dove io faccio uno scatto dopo l'altro con la mia reflex, ne morirono a migliaia, donne uomini bambini, lavorando anche 18 ore al giorno per un pugno di riso. Sulla riva opposta si intravede un boschetto fatto di alberi alti diversi metri. Qui in Cambogia si dice che gli alberi migliori siano quelli che furono concimati con i cadaveri di quegli anni.

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