Buoni e cattivi maestri. Ho appena finito di leggere
Sempre a proposito di cooperazione. L’altro giorno, in centro a Trento, ho incontrato casualmente uno di quegli uomini a cui il Trentino (del vino e non solo) deve molto. Uno dei protagonisti della rinascita del comparto enologico del secondo dopoguerra. Come tanti di quegli uomini usciti da San Michele e che hanno continuato a lavorare per l’agricoltura trentina in quello straordinario laboratorio di intelligenze e di risorse che è l’Udias. Insomma uno di quelli che ne hanno sempre capito e che continuano a capirne. Molto. Con la cooperazione non ci ha mai flirtato volentieri. Ma, visto il mestiere che faceva, la ha sempre frequentata. E conosciuta. Da dentro e da fuori. Ora è un vecchio signore un po’ acciaccato con la chioma argentea e i modi signorili e composti. Che nemmeno la malattia e l’età sono riuscite a compromettere. E’ fuori dal giro da molti anni. Ma continua ad osservarlo, il giro, il nuovo giro, e a dire serenamente quello che pensa, quando qualcuno gli chiede un’opinione. L’altra mattina lo ho incrociato dalle parti del Duomo: quando lo ho visto, come faccio sempre, mi sono scappellato e gli ho stretto la mano. Non per cortesia, ma perché ho sempre pensato se lo meritasse. Lui ha sempre finto un leggero imbarazzo, ma si capiva che gli faceva piacere. Dopo due parole, abbiamo deciso di andare a prendere un caffè insieme. Come era prevedibile, dopo pochi istanti, il discorso è finito irrimediabilmente dove entrambi sapevamo fin dall’inizio sarebbe andato a parare. A quel punto, questo vecchio signore che solitamente non tradisce mai la compostezza di un’eleganza senza tempo, è sbottato: “Ma porco bip bip bip, ma come si fa ad andare avanti in questo modo. Ma hai visto l’altro giorno il Conci, che dopo quarant’anni di dominio incontrastato ha lasciato la presidenza del colosso rotaliano, ma si è tenuto un posto nel CdA e si è fatto promettere la nomina alla vicepresidenza. Per poter continuare a menare il gioco. Il gioco della quotazione in Borsa della sua Cantina (chissà come la penserebbe don Guetti che non tollerava nemmeno l’uso della cambiale), ma anche il gioco dell’intera cooperazione trentina insieme a Pierluigi Angeli. E Schelfi poi, dopo aver signoreggiato incondizionatamente su via Segantini per dieci anni, si accorge solo ora di non essere stato capace di allevare un delfino degno di questo nome. E ora si fa dipingere sui giornali come un fascinoso uomo di potere tormentato sulla graticola del dubbio; diviso fra il sogno romano di FederCasse e la tentazione di usare le scappatoie degli statuti per calpestare il buon senso e le convenzioni democratiche e quindi accettare a furor di popolo il quarto mandato. Per il bene della cooperazione. E il suo vice Rauzi, che non si ricorda più neppure lui da quanti anni sta a capo degli allevatori. E il gran valzer scomposto di tutti gli altri boiardi coop, che invece di cominciare a confrontarsi democraticamente con la base sociale, sembrano incartati dentro una vertigine di potere senza capo ne coda, fra un passo avanti e uno indietro. E non sanno che pesci pigliare. Ma che razza di cooperazione è diventata questa? Dove sono i soci? Come sono ridotti i soci? Ai miei tempi si diceva che la cooperazione in Trentino era un male necessario come il matrimonio. Ma oggi, il matrimonio non va più di moda. Di sicuro non è più necessario. Mi sembra sia rimasto solo il male”. Finito il caffè, senza che io potessi dire nemmeno una parola. Non mi è rimasto altro da fare che annuire. Poi ci siamo salutati. Ciao, caro vecchio maestro. Spero di rivederti presto e in salute. Magari per poter parlare d’altro. Non di questa cooperazione che si è scordata anche l’abc della lezione di don Lorenzo. O che forse non la ha nemmeno mai studiata.