Appunti di lettura (ad alta voce)

Da Ellisse

Parto dall'esperienza di giovedì scorso a Milano, in occasione della presentazione del libro antologia "Totilogia - involatura sulla poesia di Gianni Toti" (libro di cui spero di parlare a breve), durante la quale ho letto due o tre testi di Toti, e li ho letti come mi andava di leggerli. L'esperienza in sè, divertente e positiva, è qui solo l'occasione per qualche breve riflessione, un po' a ruota libera, sul dire, leggere, recitare (che sarebbe già un bel titolo per un saggetto). E leggere altri da sé stessi, soprattutto, testi di autori che non siamo noi. Diamo per scontato che solo l'autore sa come andrebbe letto un suo testo, e forse nemmeno lui, dato che, come credo, il testo poetico può sempre essere soggetto ad "illuminazioni" di senso (e anche di suono) anche per l'autore stesso. In genere l'autore ha comunque un'idea precisa sul da farsi. Credo ad esempio che Ungaretti avrebbe letto "I miei fiumi" cento volte allo stesso modo che in questa registrazione, piuttosto nota. Penso anche che sarebbe difficile, avendo sotto mano questo documento, darne una versione molto diversa, a meno che non se ne voglia fare una cover rap o una citazione intertestuale. E che dire di Ghérasim Luca e della sua ancora oggi sconvolgente Passionnément? Ma mettiamo il caso di non avere l'autore sotto mano, perché assente, distante, non documentato o semplicemente morto. Purtroppo (o per fortuna, da un'altra prospettiva) il testo poetico non è una partitura musicale, in cui gli accenti, le misure, le pause ecc. sono più o meno chiaramente identificati. Se questa "mancanza" lascia spazio a un certo margine di autonomia interpretativa, tuttavia sapere come leggere un testo di un altro è, in via generale, una presunzione, e questo vale ovviamente anche per me. Perciò affermazioni del tipo che la poesia (quale? tutta?) andrebbe letta lentamente, staccando con ampi vuoti   come   questi   le   parole   in modo che l'ascoltatore possa   intendere   e   gustare   a pieno   il senso delle parole, mi lasciano qualche perplessità, se non altro perché la poesia non è fatta solo di parole ma di molte altre cose. Come del resto mi lasciano un po' dubbioso le "scuole" in cui viene insegnato a dire la poesia e gli slam nei quali la spettacolarizzazione scenica della lettura fornisce talvolta una fin troppo comoda mascheratura alle carenze qualitative del testo (in questo caso il proprio, quindi lasciamo perdere).  Forse - ecco, appunto - oltre al dire bisognerebbe anche insegnare il capire criticamente il testo (o autocriticamente, se si tratta di roba propria). Un buon  punto di partenza resta a mio avviso la sensibilità personale del lettore, per quanto possa apparire fumoso questo concetto. Se uno parte dalla tecnica probabilmente restituisce all'ascoltatore la tecnica, non so se mi spiego. Se uno parte dall'empatia, dal riconoscimento delle percezioni anche emotive che il testo gli ha già dato prima, privatamente, può anche darsi che riesca a restituirle a chi ascolta (tra l'altro sono sempre stato convinto che la poesia andrebbe sempre letta a voce alta, anche nel chiuso della propria cameretta, e questo rimane un buon inizio). Sensibilità e occhio. Perchè l'autore, a parziale correzione di quanto dicevo all'inizio, qualche segnale  di "partitura" o di sotto testo, per dirla in termini teatrali, lo dà. Credo sia utile, a mio avviso, considerare la punteggiatura se c'è (nei testi contemporanei sempre più assente), le interlinee, i rientri  le indentazioni e gli allineamenti al margine destro, che raramente un autore mette lì a caso, ed altri arnesi come gli enjambement. Tutta roba che serve a dare un ritmo, le sospensioni, i silenzi. Ma soprattutto credo che sia necessario intendere il tono del componimento, se sia di modo maggiore o minore, se sia ad esempio grave o ironico, se contenga un'ossessione o una liberazione. Lo so, sono cose ovvie, ma forse non tanto a giudicare da quello che sento in giro. Dovendo fare un esempio, citerei intanto una delle poesie di Toti che ho letto a Milano, tratta dal libro. Ironia e critica di certi artifizi lirici, con un pizzico di surrealismo che però dichiara un principio di realtà assoluto:
(NECROLOGIO PER LA METAFORA)
non paragonava più niente a nessuno /
non diceva più alla sua donna
che era come una rosa / che era una rosa /
non ripeteva neppure più alla sua rosa
che era come la sua donna  / che era la sua donna /
ma quando lei arrivava sei come te ripeteva
e quando aspirava una rosa sei come una rosa constatava
e gli veniva quasi da piangere perché //
la sua donna era solo la sua donna
le rose erano le rose
e tutte le donne del mondo tutte le rose
il come era abolito nessuno lo sapeva più distinguere
tra il volto e lo specchio / finalmente …
Gli slash (/) sono sospensioni, quelli doppi (//) una sospensione allungata prima della conclusione, i grassetti i punti che a mio avviso in lettura andrebbero enfatizzati, proprio dove il poeta mette in discussione l'usurato "come" della metafora, annullandolo. Mi sembra abbastanza intuitivo, tutto sommato, ma naturalmente non definitivo, perchè in qualche modo la lettura è sempre una forma di prevaricazione del testo. Anche se possiamo non essere completamente d'accordo con U. Eco quando afferma: "un testo vuole lasciare al lettore l'iniziativa interpretativa, anche se di solito desidera essere interpretato con un margine sufficiente di univocità", è indubbio che in quel margine risiede il diritto creativo e inalienabile dell'autore, di cui chi legge, più o meno professionalmente, deve tener conto. Concluderei invitando alla lettura di una poesia che amo molto, tratta da "Variazioni" di Amelia Rosselli:
   Tutto il mondo è vedovo se è vero che tu cammini ancora
tutto il mondo è vedovo se è vero! Tutto il mondo
è vero se è vero che tu cammini ancora, tutto il
mondo è vedovo se tu non muori ! Tutto il mondo
è mio se è vero che tu non sei vivo ma solo
una lanterna per i miei occhi obliqui. Cieca rimasi
dalla tua nascita e l'importanza del nuovo giorno
non è che notte per la tua distanza. Cieca sono
che tu cammini ancora ! cieca sono che tu cammini
e il mondo è vedovo e il mondo è cieco se tu cammini
ancora aggrappato ai miei occhi celestiali.
E' evidente il meccanismo di ripetizione, reiterazione, circolarità, di isolamento della parola, di verso costruito sul fiato, un testo in cui, come in altri "l'idea non era più nel poema intero [...] ma si straziava in scalinate lente, e rintracciabile era soltanto in fine, o da nessuna parte" (Rosselli, in "Spazi metrici"). E' in funzione di questo, del suo precipitare di parole-pietre e altro ancora che bisognerebbe pensare la sua lettura, probabilmente. E' un terreno aperto. Voi come la leggereste?

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