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Appunti di un appassionato di fantasy: la variabile umana in Tolkien e Martin

Creato il 22 marzo 2012 da Mickpaolino

L’uomo è spesso la misura con cui si dimensionano i mondi fantasy creati dagli scrittori più rappresentativi del genere, ma se per qualcuno l’umano è un elemento complementare, importante ma non al centro della storia, per altri è una variabile impazzita che plasma le varie fasi della storia grazie alle qualità di cui dispone e per colpa dei difetti endemici del suo essere: fallibilità, corruzione per mezzo del potere e malvagità sono solo alcune delle peculiarità che grandi scrittori come George Martin e J.R.R. Tolkien hanno attribuito all’uomo.

L’uomo di Tolkien è insicuro, facile alla corruzione e al tradimento, crudele quando non ha il potere e ancor più spietato quando invece ce l’ha. Vive in un universo elfo-centrico e anche quando per colpa il suo mondo rischia di essere distrutto dalla sete di potere e di conquista di Morgoth, prima, e del suo vassallo Sauron, dopo, vede quasi con paura le altre razze temendone e invidiandone le qualità, è ostile specialmente nei confronti della famiglie elfiche che decisero di vivere sulla Terra di Mezzo. Tra tutte le razza che popolano le sue storie, Tolkien amava particolarmente gli elfi, tanto da dedicargli un’intera saga che comincia ne Il Silmarillion e termina ne Il Signore degli Anelli per un totale di oltre 4000 pagine di storia: gli elfi sono fatti della stessa sostanza della Terra stessa, vivono indefinitamente e non possono morire se non trafitti dalle armi. Quando decidono di lasciare il mondo possono ritirarsi per l’eternità nella sale di Valinor per godere della luce di Iluvatar: è questo il dono che la divinità suprema ha deciso per loro, legarli per sempre alle vicende della Terra di Mezzo e al destino di quest’ultima. Viceversa agli uomini, i Secondi Geniti di Iluvatar, è stato concesso di morire, abbandonare completamente la vita al fine di riposare per l’eternità e non subire lo stesso destino della Terra. Se gli elfi accettano di buon grado il loro dono, pur rispondendo con una malinconia colpevole, per gli uomini la morte sarà una maledizione con cui il Nemico riuscirà a legare a se nel tradimento alcune delle casate più potenti e illuminate della storia di Arda, perfino i Numenorean, storica stirpe che è riuscita a rivaleggiare in forza e coraggio con gli Eldar (elfi della luce) di Feanor, e che ha ricevuto in dono una lunghissima ma pur sempre caduca vita, non potranno nulla di fronte alla predisposizione per la caduta. La caratteristica che Tolkien affibbia agli uomini, per ridurre gli effetti della variabile umana, è la caduta, ovvero il momento in cui la forza dell’uomo viene meno ed egli cede alle lusinghe del male causando la propria e l’altrui rovina. Emblematico è un passaggio contenuto nei Racconti Incompiuti in cui Tar Aldarion, quinto re di Numenor, dice – Troppo grande è il dubbio che mi assilla perché io governi. Prepararsi o lasciar correre? Dal momento che ognuna delle due strade può condurre al male, che valore ha la scelta? -. Per chi non avesse letto il Silmarillion urge una precisazione: dopo questa acuta riflessione Numenor verrà inghiottita dalle acque per volere di Iluvatar dopo che i grandi re degli uomini si erano fatti incantare dalle lusinghe di Annatar, il signore dei doni, altrimenti detto Sauron.
Ma di episodi del genere ce ne sono anche ne Il Signore degli Anelli, specialmente quando Tolkien insiste sulle insicurezze di Aragorn, discendente di Numenor, a percorrere la via del suo destino e rivendicare il trono di Gondor: ci vogliono più di 2000 pagine prima che il Dunedain si decida a correggere gli effetti della variabile umana, e su costante insistenza dell’amata Arwen, un elfo.

Ne Le cronache del ghiaccio e del fuoco di George Martin invece non ci sono elfi ma l’intero mondo è popolato da uomini di diverse razze e dinastie, ma pur sempre uomini e se mai fosse possibili in questo caso la variabile umana è proprio impazzita e assolutamente non controllabile, definisce i contorni della storia e li allarga e restringe di continuo. Non ci sono razze più nobili di altre ma solo uomini che agiscono in nome dei più alti ideali o dei più bassi tornaconto. In Martin la natura umana è completamente rappresentata dall’alto dell’onore e della fedeltà al basso dell’incesto in un turbinio di fatti ed eventi in cui un personaggio non è unicamente definito dalle sua azioni ma agisce in funzione di quello che gli accade attorno. Casualmente il perno su cui si erge la prima parte della storia, però, non è un uomo, o meglio non nella concezione collettiva del termine, è un nano, il sagace Tyrion Lannister che opera incessantemente, e soprattutto senza rimorsi, alcune delle scelte che danno forma alla storia. È una storia di uomini in cui la la variabile fantastica è introdotta dai misteriosi e temibili Estranei e dai draghi, molto sullo sfondo questi ultimi, ma l’assenza di altre creature dalla più malvagia alla più nobile è impersonata a turno dai diversi personaggi umani. La divisione in numerosissime famiglie in Martin è paragonabile alla grande scissione degli elfi in Tolkien, stesse dinamiche, stesse lotte per il potere e stessa crudeltà: ecco la variabile umana che torna a colpire.
Se in Tolkien c’era l’Unico Anello a rappresentare la ricerca del potere assoluto, ne Le Cronache di Martin c’è il trono di spade a catalizzare le attenzioni delle diverse famiglie ma a differenza di quanto accade nelle vicende di Arda, a Westeros sono i personaggi nell’ombra quelli che smuovono le acque e tessono la trama, personaggi come Petyr Baelish e Varys, consiglieri e strateghi che danno all’uomo una caratteristica in più rispetto a quanto detto finora: il gusto della macchinazione.
Si rovesciano quindi i ruoli e si scopre che il guerriero non è forte come sembra, il re non è potente come vuole apparire e il lord non così nobile come vuol far credere; d’altra parte, se in una stanza ci sono un re, un ricco e un prete insieme a un mercenario e ognuno di questi ordina al prezzolato di uccidere gli altri: chi sarà a vivere e chi a morire? Ecco l’essenza della natura umana in Martin.
Bisogna aspettare il settimo libro prima che una riflessione di un personaggio marginale ci faccia capire come stanno le cose – La storia è come una ruota, in quanto la natura umana di fondo rimane la medesima. Ciò che accadde nel passato è destinato ad accadere di nuovo - e l’ottavo per ricevere un altro chiarimento su come la pensa Martin – non è importante come un uomo inizia ma come finisce- .



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