Ho la sensazione che ci sia bisogno di silenzio. Si fermassero per un attimo i calzolai, quei pochi rimasti; i barbieri; i panettieri; gli impiegati d’ufficio ruba stipendio; i preti; i baristi; i braccianti convenienti; le puttane economiche; i malfattori; i secchioni e gli asini; gli edicolanti; gli attacca briga; i nulla facenti; i “tutto fare”; i precari; i sistemati; i sognatori e i rivoluzionari; gli sniffatori.
Si fermassero. Non per la patria né per politica altrui. Bensì per loro stessi.
Spazio a quel vano senso di pace che è tutto un dire e un professare dall’altare immacolato.
Dal seggio del silenzio sono convinto che le cose apparirebbero definite. Questo paese di vecchi vecchi e di giovani vecchi sarebbe migliore per un microfrangente di disperata anomalia. Niente più vanità e ridicolezze. Accuse e diatribe. Il pettegolezzo diverrebbe complimento. L’offesa, perdono. Niente più gare. Arrivismi.
Saremmo la fotografia perfetta di un presepe assopito e progredito. Sussultando con tutta la bellezza appartenutaci da secoli, potremmo espandere questo retaggio ghettizzante ad un’intera umanità. Un’immobile quiete lunga la cruna di un ago concederebbe un pezzo di “paradiso perduto”.
Tuttavia, i sogni giacciono sempre altrove. E Milton era un poeta, fallibile, come tutti i grandi scrittori. Ho una sensazione che non sarà mai sensazione. Costretto a girovagare come carro trascinato da nessun bue per strade su cui sono cresciuto, e che disconosco per la loro infedeltà. Non può un paese appartenerti. Non può una nazione appartenerti. Non può la vita, altresì, appartenerti. Mi chiamano “compaesano”. Mi credono “fratello”. Mi convincono di essere un “compagno”. Addirittura c’è chi aleggia la parola “figlio”. C’è una rete di legami inesistenti che lega l’uomo all’uomo rendendoci alghe attaccate a pescherecci. Non saremo mai liberi. Mai del tutto. Io non sono nessuno; dunque non posso essere “di” nessuno. La fratellanza è pura sopportazione. Dialettica. Quando osservo alcune personalità che scimmiottano la vita pagando con il loro tempo il mutuo della morte, statue di terracotta ferme ad una piazza pronte a sfilare, tacchini su tacchi, e civettano di confessionale in confessionale spogliando spudoratamente l’immagine di poveri Cristi ancora da martirizzare, quando parlo con gente altolocata che firma autografi su pezzi di carta igienica in cambio di una (t)rombante macchina che riverbera di colle in colle, capisco che non c’è niente di fraterno tra me e loro.
Ho pena per queste povere esistenze che sono solamente delle povere esistenze che ripetono un “mia culpa” interminabile di stupidità.
Nondimeno, vien da sollecitare a salvare le anime. Che le nostre siano, come voleva De André, delle anime salve.
Fuori l’estate stenta ad arrivare. I bar si riempiono. Le menti si sono sfollate.
C’è sempre qualcosa destinata ad essere tardiva, altre a non sopraggiungere affatto, come queste parole, presumibilmente.