Eppure c'è stato un tempo in cui Manuele non era brutto; o, perlomeno, un tempo nel quale il suo specchio era la madre. E, se "un padre, non si chiama per nome", del nome di Aracoeli Muñoz Muñoz il lettore del formidabile testamento narrativo di Elsa Morante si bea, fin dal titolo, per quasi tutta la durata di questo suo densissimo romanzo. Aracoeli (1982) è un'opera a tratti morbosa (colma com'è di cenni a stati patologici), in certe pagine addirittura respingente, ma straordinaria. Dominata da questa voce stridula, incerta eppure, per vocazione fatale, attratta dai propri abissi, dalla complice e confidente analogia con il mondo animale, la penna di Elsa Morante si coagula qui in modo suggestivo in una galleria di volti e di pose artistiche; in una sfilza di frammenti autobiografici, dove la trama si perde e rimangono le storie a comporre un'atmosfera di sconfitta.
Il pretesto narrativo è quello di un viaggio in una Spagna deserta e lontanissima che il protagonista, quarantatreenne fa, alla ricerca della storia della madre, che si capisce morta da tanto tempo. Si capisce dopo poche pagine che Manuele - corrotto dalla sua infelicità - non riuscirà a rispettare nessuna scadenza, né a completare il viaggio, perché il suo farneticante presentarsi gli fa disperdere le energie in una serie di ricordi che nulla hanno a che fare con le vicende personali di Aracoeli ragazza. In realtà, si direbbe anzi che Aracoeli Muñoz Muñoz non esista al di fuori della memoria dell'uomo e dei pochi residui di un catalano cristallizzato in cantilena, a nenia affettiva: lui stesso ne è un'infrazione, uno strappo fatale. L'unico spazio che Manuele lascia alla madre è la conoscenza esclusiva e a lui negata del fratello di lei, anche lui di nome Manuele (anzi: Manuel). Eroe del nostro protagonista, assurto al mito e all'onore dell'imperitura assenza, abbiamo in lui uno zio rivoluzionario, zio bellissimo - a detta di Aracoeli - che combatte nella guerra civile contro Franco e lì perisce.
È nel suo fantasticare, nel suo suicida lambiccarsi poliglotta dei sensi e delle gelosie, dunque, che il mondo affettivo di Manuele volge verso una dimensione sensualissima e disperatamente anaffettiva: omosessuale senza un compagno, né l'interesse a costruire niente di duraturo nella sua vita, Manuele va a battere in una Milano dov'è giunto a lavorare per chissà quale capriccio della sorte. Vive con rassegnazione - e quasi con disinvoltura - di stenti e di lavori provvisori e non piace: non piace il suo aspetto fisico (sul quale non può intervenire, se è vero che il nostro proprio corpo è straniero a noi stessi quanto gli ammassi stellari o i fondi vulcanici), ma soprattutto non piace la sua aria ombrosa, malaticcia, febbrile, che forse non troppo a torto viene associata a una facies infida. Del resto, lui stesso, il narratore del nostro romanzo, quasi a esautorarsi da sé non si fa scrupolo di dirci:
... ancora oggi, questa sorta di monologo sregolato, che vado qui recitando a me stesso, io l'ho imbastito, fino dall'esordio, coi fili dell'equivoco e dell'impostura...
Nel suo racconto, il miope Manuele - l'uomo che, senza occhiali, vede ballare al suo cospetto una giostra d'ombre - non fa che sottolineare le sovrapposizioni, le trasparenze di un personaggio in un altro, del femminile nel maschile e viceversa, salvo poi incidere ritratti memorabili. Non dirò tanto dei singoli personaggi (di Aracoeli, appunto, del padre, della dimenticabilissima zia Monda e di quello che sarà il suo compagno, dei suoi vicini di casa o del portiere). La virtù maggiore di questa scrittura (impegnativa e molto ricca sul piano semantico) è, forse, fotografica, restituire impressioni di eventi, di circostanze speciali, così come sono rimasti nella sua memoria. Manuele pietrifica, come fece Medusa, un attimo, un incontro; né trova per tutto il romanzo un Perseo che sappia penetrare la sua quasi totale cecità e far svanire l'incanto lucido in cui è caduto. Il personaggio, nel suo scrivere, si condanna alla sua onirica impotenza:
Io sono stato sempre una fabbrica enorme di sogni. E se è vero che il nostro tempo finito lineare è in realtà il frammento illusorio di una curva già conchiusa: dove si ruota in eterno sullo stesso circolo, senza durata né punto di partenza, né direzione; e se poi davvero ogni nostra esperienza, minima o massima, è LÀ stampata su quel rullo di pellicola, già filmata da sempre e in proiezione continua; allora io mi domando se anche i sogni si iscrivano in quel conto. E se il mio rullo, preso tutto insieme, risulterebbe un film dell'orrore, o una comica. Io però, in ogni caso, potrei solo piangere, a rivederlo; né davvero potrei tornare a girarlo - misericordia.