Archeologia. Brevi considerazioni tecniche sulle sculture “Giganti di Mont’e Prama” di Raffaele Mondazzi

Creato il 11 gennaio 2016 da Pierluigimontalbano
Archeologia. Brevi considerazioni tecniche sulle sculture “Giganti di Mont’e Prama”di Raffaele Mondazzi (docente di scultura all’Accademia delle Belle Arti di Torino)

Inizio con alcune considerazioni su cosa questo scritto non vuole essere: non vuole essere un giudizio storico, non una valutazione di autenticità, non un tentativo di datazione. Non desidero dare, in questa sede, una valutazione di merito ai restauri né al criterio espositivo. Dopo tute queste negazioni, come S. Pietro, piangerò amaramente su ciò che, in positivo, dirò. Ciò che dirò riguarderà esclusivamente l’aspetto tecnico della esecuzione delle statue, cercherò di sostenere quanto affermo con la documentazione delle fotografie che sono riuscito a fare e che spero confermeranno quanto ho osservato.
Tipo di metallo: ferro o bronzo La prima cosa: le sculture, in pietra calcarea sedimentaria non cristallina (non metamorfosata) relativamente tenera, sono state eseguite, ognuna forse da un unico blocco, con utensili in ferro. Probabilmente è osservazione banale: serve comunque a definire un momento post quem le statue sono state eseguite. Le foto dello spazio scavato tra la coda del “gonnellino” a punta che scende dietro le cosce e le gambe dei personaggi rendono chiaramente l’idea di come siano stati ricavati gli spazi: usando uno scalpello col fusto piegato “a calcagnolo” che si appoggia su un punto fronteggiante lo scavo e che, colpito col mazzuolo in modo non eccessivamente violento, scava lateralmente il corpo del materiale lapideo. L’uso del bronzo nell’utensileria da scavo non consentirebbe la preparazione di tale attrezzo: la presenza di questi spazi in quasi tutte le sculture dei Giganti dice chiaramente il materiale di cui sono fatti gli stessi attrezzi ed il modo, assai raffinato, paragonabile all’uso che se ne fa, a mano, tuttora nell’adoperarli. Anche l’ imponente scavo che ha dato origine allo spazio sottostante lo scudo (posto che questo sia stato ricavato dal monolite della statua) non necessariamente deve essere stato realizzato con un utensile in ferro: paradossalmente, pur essendo di dimensioni enormi rispetto al piccolo vuoto tra gambe e costume del personaggio, è meno complicato da fare: lo stesso spazio consente l’uso di utensili eventualmente più tozzi (il bronzo non si tempra, lo si può indurire martellandolo, ma difficilmente avrà un taglio paragonabile a quello del ferro temprato) dei ferri necessari allo scultore per ricavare il vuoto. Anche se nell’attrezzo in bronzo fosse stata inserita una punta in pietra dura e tagliente, ad esempio granato o ossidiana, se il calcagno necessario a fare la curvatura dello spazio tra veste e gamba fosse stato di bronzo non avrebbe retto alla pressione dei colpi necessari alla bisogna. Sul retro di alcune statue sono chiaramente visibili i segni di utensileria metallica: in questi casi è effettivamente più difficile affermare con assoluta certezza se l’attrezzo usato fosse in ferro o in bronzo indurito in qualche modo: la pietra è effettivamente così tenera da ricevere con effetti molto simili l’azione di metalli di durezza assai differente. Si notano solchi, leggermente dilavati, prodotti da subbia (punta a piramide allungata, quando è di ferro viene temprata nei 3 o 4 millimetri di vertice) e tagli da scalpello piano, ugualmente un po’ corrosi dall’acqua ma chiaramente interpretabili. Se ci sia stato un permanere di utensileria in bronzo/pietra o se tale utensileria sia stata sostituita integralmente dal ferro è difficile dire, per ciò che riguarda le parti “facili” della lavorazione. È certo che nelle parti che comportano l’uso di strumenti complessi l’uso del ferro deve essere considerato come necessario a quel tipo di lavorazione.

Uso della gradinaL’uso della gradina (scalpello piano in cui sono stati ricavati denti, in numero variabile, che possono avere il vertice appuntito o smussato) è possibile, anche se non certo, in un solo dettaglio della finitura dei Giganti: la “frangia” che decora la parte anteriore di una delle statue ora al Museo di Cagliari. Certamente la gradina non è stata usata per realizzare le linee orizzontali, più lontane tra di loro, sovrastanti la “frangia”. I segni, per quanto assai regolari ed eseguiti con accuratezza, non sono perfettamente paralleli: la cosa comporta l’uso di uno scalpello piano, piuttosto piccolo, usato di coltello. Il segno di un gradino avrebbe lasciato segni differenti, con le masse in rilievo in qualche modo “pettinate” e regolarizzate dalle gole infra i denti. Nello stesso modo potrebbero essere state realizzate le linee verticali che disegnano quelle che per brevità denomino “frange” ma che potrebbero essere la stilizzazione di una texture con andamento verticale. Sembra di intravvedere dei raggruppamenti di cinque o sei linee, ma potrebbe essere l’effetto ottico delle cavità naturali che costellano la piccola superficie. Nulla impedisce di pensare che le linee siano state fatte una ad una, segnandole con uno scalpello piano usato di taglio, regolarizzate poi con un piccola lama e con l’aiuto di un abrasivo in polvere fine (ad esempio sabbia di pomice). Sicuramente il gradino non è stato usato per le textures sopra illustrate: le linee dello scudo tondo sono certamente fatte con una piccola subbia, non troppo rifinite per conferire l’aspetto “rustico” della superficie dell’oggetto, mentre le decorazioni del pettorale sono state ripassate con abrasivo piuttosto fine. Il riparo della mano che impugna l’arco, probabilmente raffigurante un robusto intreccio “a lisca di pesce” di materiale forse vegetale, con funzione protettiva di un punto che quando lavora è assai esposto, è stato eseguito con un piccolo scalpello tagliente, in modo da avere continuità certa tra le linee del zig zag che formano la texture. Con l’uso della gradina sarebbe stato molto difficile ottenere tale corrispondenza. Tutta la superficie del guanto protettivo della mano dell’arciere è poi stata lisciata con abrasivi fini. Sembra di non vedere una analoga finezza di finitura sul resto della superficie della scultura: in particolare nella parte della spalla che originariamente si trovava dietro l’arco si intravvedono dei segni di attrezzi che possono essere stati lasciati per la difficoltà ed il rischio di raggiungere, con utensili che vanno colpiti con una certa energia, parti nascoste da dettagli molto delicati come la cocca e la corda dell’arco. Ma potrebbero essere semplicemente gli effetti del dilavamento su una roccia assai tenera e sensibile. Texture dello scudo Finitura della superficie della statua e corrosioni.
Scalpelli lisci scalpelli tondi La grande parte della lavorazione ora visibile dei Giganti è comunque stata eseguita con gli scalpelli. Ciò che è stato fatto con la subbia, che concentra l’energia del colpo di mazzuolo in un solo punto e fa saltare via una buona quantità di materiale, non è più visibile (salvo che in rari dettagli che abbiamo considerato all’inizio) proprio perché le fasi successive della lavorazione asportano le tracce delle azioni eseguite nelle fasi primarie. La grande parte della superficie che abbiamo ora sotto gli occhi reca i segni di tre agenti: gli scalpelli, gli abrasivi e la corrosione dovuta agli agenti atmosferici o chimici per la permanenza sottosuolo. Questi naturalmente sono gli ultimi in ordine di tempo, e cancellano, nei punti in cui operano, il segni degli agenti precedenti. Per farla breve: se dopo il crollo la pietra calcarea giace in un terreno umido a reazione acida la superficie visibile al momento dell’interramento subirà corrosioni dovute all’acidità del terreno, assorbirà parte dei sali disciolti in questo e presenterà, al momento dello scavo, incrostazioni e colore che avranno intaccato la superficie stessa e vi avranno aderito durante il tempo di inumazione. La stessa superficie, al momento del crollo, difficilmente sarà stata uguale nella sua totalità al momento del termine dei lavori: pioggia, vento, sale marino trasportato come aerosol avranno intaccato il materiale delle statue durante la permanenza in situ. Non ostante tutto ciò ampi brani di superficie sono ancora leggibili per come sono stati lasciati dagli scultori: ovviamente nei punti più protetti dalle intemperie, oppure in zone sottostanti una ipotetica colorazione, della quale non ho visto tracce ma non impossibile da concepire in un tale tipo di manufatti. Si vede chiaramente come a distanza molto ravvicinata convivano le tracce di dilavamento e corrosione, di subbie, di scalpelli piuttosto grandi, usati per la realizzazione di ampie superfici piane e di piccoli scalpelli, usati di coltello, per la decorazione a linee parallele molto fini, rese possibili dalla natura dolce del materiale calcareo. Natura talmente dolce che in alcuni punti rende davvero difficile la ricognizione della forma originaria. La foto sopra è ruotata, ma riconoscervi una gamba al di fuori dal contesto dei Giganti è davvero impresa ardua. In altri dettagli abbiamo interessanti tracce di lavorazione con utensili particolari; in questo frammento di mano che regge lo scudo, per esempio, vediamo tra le dita il segno di un unghietto molto stretto che disegna gli spazi, lasciando sul fondo una traccia morbida e arrotondata, molto fresca per il punto particolarmente riparato, dello scavo che ha delimitato le dita. Anche nello spazio tra il pollice e l’indice credo di poter vedere la traccia, relativamente rara, di uno scalpello tondo. Mi sembra di poter concludere che l’uso degli attrezzi, per quanto facilitato da un materiale tenero, è molto raffinato, con la costruzione, per ogni uso specifico, di un utensile ad hoc. Adattato quindi sia alla mano dello scultore che all’uso particolare che questo ne deve fare.
Uso del trapano L’uso del trapano da scultore, come siamo abituati a vederlo impiegato abbondantemente nella scultura lapidea ad iniziare dall’epoca tardo repubblicana, imperiale, bizantina e via via avvicinandosi al nostro tempo, non è presente nei Giganti di Mont’e Prama. Come è noto i Greci, fino all’occupazione romana, non usavano trapano. Una delle ragioni che hanno portato Ernst Curtius, capo degli archeologi tedeschi che nel 1877 hanno ritrovato la statua di Ermes con Dioniso bambino in una nicchia del tempio di Era ad Olimpia a ritenerla originale greca, e di mano di Prassitele, è proprio l’assenza dell’uso del trapano. Che invece fu sempre usato ed in modo sempre più massiccio, dal momento del suo primo uso, in Roma nel III - II secolo a.C. Una gentile guida del Museo di Cabras, che ringrazio per la straordinaria pazienza e disponibilità, ha mostrato e permesso di fotografare una scheda con le illustrazioni dei probabili attrezzi usati per fare le statue. La riproduco: Prudentemente alla voce “Drill” non è stato inserito alcun disegnino schematico illustrativo del “trapano”. Io non ho visto il frammento recante la serie di fori (probabilmente è conservato in deposito) come non ho visto altre tracce, a Cagliari come a Cabras, di lavorazione col trapano. Non escluderei che possa trattarsi, per il frammento di Cabras, di un brano piuttosto eccezionale, peraltro realizzato facilmente facendo ruotare, probabilmente tenendolo tra i palmi delle mani, uno scalpello a punta tonda o un unghietto del tipo di quelli usati per scolpire le mani. L’effetto non è faticoso da raggiungere e offre un risultato vivido e “coloristico”, con una superficie del tutto particolare. Si tratta comunque di effetto superficie e non di lavorazione sulla struttura, come quella illustrata, con l’uso del trapano “a violino”, da Andrea Pisano nel Campanile di Giotto.Abrasivi Il capitolo sull’uso degli abrasivi ci permette di considerare l’impatto visivo attuale delle Statue. L’uso di sostanze, in polvere o in blocchi sagomati, per spianare e lisciare la superficie è normale nella finitura di opere di scultura lapidea. Basta pensare alla scultura egizia, realizzata con l’uso di materiali durissimi, ed alla meraviglia delle superfici di graniti, basalti, dioriti, grovacche e sieniti, tutte e sempre splendidamente trattate nei lucidi, nelle textures e nelle parti vibranti per le scanalature e per le linee incise che costituiscono la decorazione e la qualificazione delle superfici stesse. Il materiale che noi esaminiamo e che costituisce il corpo dei Giganti non è paragonabile a quelli citati poc’anzi perché è molto più tenero e granuloso, quindi non lucidabile, , ma per la sua compattezza e relativa uniformità di grana assai adatto alla lisciatura e alla resa di minuti dettagli. Una spinosa questione che investe alcuni frammenti, percentuale minima di ciò che è esposto nei Musei di Cagliari e di Cabras è la seguente: è possibile che alcune parti di dettagli significativi (un paio di teste ed un paio di avambracci) rechino le tracce di una abrasione superficiale non corrispondente all’epoca della esecuzione, ma piuttosto a quella del restauro? Una risposta certa e assoluta a questa imbarazzante domanda può essere data solo da chi abbia, in tempi ormai risalenti ad una quarantina d’anni addietro, dato inizio ai restauri. La Carta di Venezia per il restauro e la conservazione di monumenti e siti , che è stata pubblicata nel 1964 e fornisce linee guida per un restauro conservativo di tipo più scientifico che ornamentale e decorativo, e che certamente non tiene conto delle esigenze mediatiche per la presentazione “spettacolare” di un qualunque manufatto antico, che sia di natura “artistica” o no, era da poco conosciuta, con valore di moral suasion e non certo prescrittivo: si può quindi pensare che, senza voler gettare la croce addosso a chicchessia, qualche piccolo aiuto sia stato dato alla ricostituzione delle superfici come potevano o dovevano essere in origine, magari rimuovendo cose che non potevano essere ritoccate se non aggiungendo materiale. Destano qualche sospetto, a tal proposito, delle strane linee, visibili nella più riprodotta delle teste, che sembrano delimitare, senza che in realtà vi sia alcun rilievo, le trecce che compaiono, più o meno danneggiate, in tutte le altre teste dei Giganti. Sono chiaramente visibili, anche in foto istantanee fatte senza l’aiuto di particolari illuminazioni, delle linee appena graffite e riempite di materiale beige. Difficile dire se tale materiale sia la concrezione naturale che si vede nei pezzi appena scavati depositati a Cabras o il frutto di un restauro davvero molto, molto accurato. Anche il colore della patina sembra diverso. Una conclusione assoluta su questo argomento non è forse possibile, ma non escluderei, per i primi tempi dal ritrovamento, una fase di restauro un po’ radicale e forse meno accorta di quelle attuali, in cui sono rispettate con grande scrupolo le caratteristiche delle condizioni dei conservazione degli oggetti: siano esse scenograficamente significative o, al contrario, presentino caratteristiche meno accattivanti.
Appoggi – piedi Un altro capitolo spinoso: non tanto per ciò che comporta l’osservazione oggettiva di ciò che abbiamo sotto gli occhi, ma per le conseguenze culturali che queste osservazioni hanno. Abbiamo sotto gli occhi statue, di taglia leggermente superiore al naturale, che poggiano i loro piedi su basi a parallelepipedo che assicurano una certa stabilità. E qui cominciano i problemi. Abbiamo appurato che, tra quelle che sono visibili, nessun gonnellino a punta posteriore appoggia la sua punta a terra. Soluzione che avrebbe permesso di scaricare il peso (notevole, certamente poco inferiore alla tonnellata per ogni esemplare, ma ricordiamo la dolcezza del materiale!)su tre punti, pressappoco equidistanti tra loro, invece che su due soli. Ma i caparbi scultori antichi hanno considerato che nessun modello delle loro statue trascinasse sul terreno la coda del proprio abbigliamento e si sono ben guardati dal modificare un dato reale. Lealtà di scultori! Assai rara, non solo tra gli scultori stessi ma in generale tra gli esemplari del genere umano… Questo ci pone però di fronte ad un problema statico di non facile soluzione: come si reggevano le statue? Che possano aver avuto qualche problema è testimoniato oggettivamente dal numero dei frammenti in cui sono state ritrovate: non una in piedi (se ne era persa memoria) e quelle atterrate ridotte ad un numero esorbitante di frammenti (per i primi ritrovamenti se non ricordo male era 5200 circa, ma i recenti scavi hanno sicuramente aumentato la cifra a dismisura). Si potrebbe pensare a un collocazione addossata ad un muro: funzione di telamoni sul tipo di quelli del tempio di Zeus ad Agrigento. Ma se non ho capito male nel sito non è stata trovata traccia di muro. Che avrebbe dovuto essere, seppure non altissimo, comunque di massa tale da lasciare qualche volume rintracciabile dagli archeologi. Una palizzata di legno? Anche per queste tracce (di incendio, di frammenti carbonizzati o semi fossilizzati) avrebbero dovuto essercene. Naturalmente il fatto che le figure abbiano potuto reggersi per alcuni secoli sulle proprie caviglie, robuste ma non troppo, non è impossibile: ciò ha sicuramente abbreviato la vita alle statue, facendole crollare in un tempo relativamente vicino alla loro costruzione e permettendo forse una conservazione, sottoterra, migliore che non esposta all’aria aperta. Un altro argomento che potrebbe far pensare ad un sistema per assicurare una scultura all’altra è la presenza di piombo colato in fori praticati appositamente: probabilmente servivano per collegare alla pietra dei perni di metallo con funzione di raccordo e sostegno: forse per dettagli dell’immagine scolpiti a parte e poi applicati? Per grappe o tenoni, sempre in metallo, che collegassero varie figure? Impossibile dire fino a che non si trovino dei pezzi di scavo che possano far pensare a qualcosa di sensato. In mancanza di ciò è meglio attendere prudentemente, notando però come questa tecnica di assemblaggio tra pietra e metalli abbia avuto nei secoli grande successo: in epoca ellenistica e romana i blocchi che costituivano le grandi costruzioni erano assemblati con perni di ferro assicurati al marmo o al travertino da colate in piombo. I buchi che costellano le parti marmoree, ad esempio, del Colosseo furono praticati nel Medioevo per ricuperare le grappe in ferro, legate col piombo, che collegavano la muratura. Dopodiché la fabbrica veniva ruinata ed anche il marmo già tagliato era ricuperato per nuove imprese edilizie. Senza tale furia abbattitrice - ricuperatrice le antiche fabbriche monumentali sarebbero probabilmente per la maggior parte ancora in piedi. Una piccola stranezza: sia a Cagliari che a Cabras sono esposte delle sculture che mostrano una stranissima frattura: quella sotto la pianta dei piedi. Una frattura normale è questa riprodotta: la pietra calcarea si rompe nel punto più sottile e le parti più spesse rimangono coerenti. Il fatto che alcuni piedi siano staccati dalla base in corrispondenza dello stacco di un essere umano dal terreno mi lascia veramente perplesso. L’unico esempio assimilabile che conosco è il Temenos di Delfi: là, sul lastricato di marmo grigio che costeggia la salita al Tempio di Apollo ci sono migliaia di impronte di piedi di statue: la spiegazione è facile: le statue dei donari erano in bronzo, prive di base fusa insieme (vedi i Bronzi di Riace), e le impronte erano la sede che permetteva alle statue di reggersi in piedi, aiutate dai soliti tenoni in ferro legati al marmo con piccole colate in piombo. L’asportazione delle statue ha lasciato la desolata distesa di impronte, quasi un’attesa di un impossibile ritorno. Ma qui? Veramente difficile pensare qualcosa.
Monoliti?
L’ultima questione che intenderei pormi è anch’essa di non facile e non sicura risposta: sono monoliti? Considerando la natura della pietra e le modalità della lavorazione la risposta dovrebbe essere positiva. Rimane il fatto che ricavare delle sporgenze e degli aggetti grandi come quelli degli scudi sulla testa o degli archi impugnati, o dell’altro modello di scudo tondo tenuto col pugno, in modo assai realistico, comporta l’estrazione di blocchi grezzi di enormi dimensioni e di un grandissimo lavoro di intaglio. Si torna per l’ennesima volta sull’argomento della scarsa durezza della pietra: Rimane la problematica del peso e del trasporto dalla cava al sito di lavorazione, probabilmente vicini, e soprattutto da questo al sito di collocazione definitiva: è pur vero che il peso , con tutto quello scavare, può essere diminuito anche di due terzi, ma aumenta nel contempo la fragilità, obbligando i trasportatori a un tipo di movimento estremamente cauto. Non escluderei completamente l’ipotesi di un assemblaggio di pezzi particolarmente sporgenti scolpiti singolarmente, almeno in piccole parti. Gli attacchi degli scudi sulle teste non sono così freschi da obbligare a pensare ad una frattura occasionale, l’uso del piombo per motivi peraltro ancora misteriosi è comunque appurato: ciò non toglie nulla alla principale ipotesi dell’intaglio a corpo, partendo da un grande blocco calcareo. In conclusione: se si esclude qualche piccolo intervento di restauro forse eccessivo il fascino terribile dei Giganti di Mont’e Prama trova nella loro esecuzione tecnica una conferma. La pietra non è di quelle che incutano sacro timore: ve ne sono altre in Sardegna (graniti basalti porfidi trachiti) che sono state usate nel corso dei millenni per la edificazione di luoghi sacri che forse anche dalla tremenda difficoltà di costruzione traggono un frammento della loro maestà misteriosa; in ogni caso la perizia di esecuzione, il numero degli esemplari e l’unitarietà del linguaggio plastico dei Giganti riescono a forare il muro del tempo, e a portarci in un mondo antico e misterioso.