di Paolo Bernardini
La vasta concentrazione di insediamenti che distingue il territorio sulcitano nel Bronzo è il necessario palcoscenico sul quale introdurre un nuovo protagonista: il paesaggio della successiva Età del Ferro nella regione del Sulcis. Per quanto i processi interni di organizzazione del territorio e di gerarchizzazione degli insediamenti siano ancora privi di approfondimenti di tipo cronologico e diacronico, la distribuzione del popolamento, preso nel suo aspetto generale, indica immediatamente un fervido dinamismo e un sofisticato livello di appropriazione e di gestione del territorio e delle sue risorse da parte di quelle comunità di cultura nuragica che vivono, secondo la felice espressione di Giovanni Lilliu, nella «bella età dei nuraghi». Il medesimo studioso, dopo aver presentato, in un dettagliato studio del 1995, i quadri nuragici del Sulcis nel Bronzo, si scusava con i lettori per non aver potuto dare conto con altrettanta dovizia di dati della successiva Età del Ferro, per la quale venivano indicate linee estremamente generali di sviluppo culturale in linea con il divenire di quella “età delle aristocrazie” propugnata altrove dallo stesso autore. Oggi la situazione non è cambiata di molto; la comprensione dei quadri culturali e organizzativi dell’età nuragica è stata limitata in modo notevole dal prevalente orientamento della ricerca sui contesti di cultura fenicia e punica del territorio sulcitano, in qualche modo sollecitata dalla presenza in questa regione di importanti giacimenti legati alla problematica dell’irradiazione fenicia e del successivo dominio cartaginese. Vi è, in realtà, alla base della settorializzazione delle indagini e della prevalenza di una “specializzazione” sull’altra, una metodologia discutibile di impostazione della ricerca, la quale, fino a tempi recenti, ha avuto poco interesse, sia sul versante degli studi fenicio-punici che di quelli preistorici e protostorici, a indagare i punti sensibili dell’interrelazione e dell’osmosi tra culture ed etnie diverse e che
ha frantumato in spesso aridi specialismi un fenomeno storico complesso e variegato, originato dall’incontro e dal confronto di tradizioni, esperienze e attitudini diversificate, ma tutte protagoniste nel forgiare il peculiare processo storico dell’isola. Se gli studi più recenti di preistoria e protostoria valorizzano per la Sardegna in generale e conseguentemente, nella fattispecie, per la regione del Sulcis il dato della forte riduzione delle strutture di insediamento tra la fine del Bronzo e l’avvio del Ferro, spesso letto e interpretato come testimonianza forte di tracollo culturale e di progressiva estinzione della vitalità e della specificità della civiltà nuragica, ciò non significa prefigurare gli scenari dell’Età del Ferro come paesaggi in corso di progressiva desertificazione culturale. Molti siti, in realtà, come la ricerca ha modo di documentare in modo sempre più ampio attraverso le attività di prospezione territoriale, continuano la loro vita e i nuraghi, che vengano o meno costruiti, restaurati o modificati nel loro uso, persistono nel segnare con forza il paesaggio e la percezione di esso come collante culturale e ideologico del territorio. Non si tratta, beninteso, delle isolate e romantiche torri che segnano il nostro presente e, purtroppo, anche e troppo spesso la nostra rappresentazione del passato, ma di architetture ben inserite in un tessuto di popolamento vivo e pulsante tra il Bronzo e il Ferro. Eppure, in una sorta di recupero moderno di vecchi miti, l’isola che si affaccia alla nuova Età del Ferro somiglia sempre di più a quella terra arida e spopolata abitata da grandi uccelli che Aristeo dovrà recuperare alla fertilità e alla produttività umane; soltanto che, in questo caso, il ruolo dell’eroe greco è interpretato dai Fenici, i quali fondano le loro comunità sulle coste di una terra che somiglia in modo sempre più preoccupante a un fondale vuoto di uomini e di culture.
Ma i Phoinikes non conoscono quest’isola vuota di popoli, più vicina alla descrizione di Pausania che alla ricostruzione storica; approdano viceversa in regioni saldamente interrelate con i traffici che uniscono, attraverso il Mediterraneo, il Vicino Oriente e l’Estremo Occidente fin dai tempi del Bronzo Maturo e Finale; in luoghi nei quali non abitano fantasmi, ma comunità ben vive che controllano e gestiscono risorse importanti per il commercio fenicio e di cui le indagini recenti rivelano l’esistenza nella regione oggetto della nostra ricerca: che siano gli indigeni che popolano le aree del nuraghe Meurras e del nuraghe Tzirimagus di Tratalias, quelli che vivono presso il nuraghe Sirai di Carbonia o presso la torre del Castello o nei vasti spazi di Grutti Acqua a Sant’Antioco. Su questi luoghi, dove precoce è la circolazione di ceramica di tradizione micenea e di bronzistica figurata vicino-orientale, i Fenici si affacciano attirati dalle interessanti risorse minerarie disponibili nel Sulcis settentrionale e nell’Iglesiente; la grotta-santuario di Su Benatzu, in territorio di Santadi, documenta in modo evidente questi orizzonti di contatto tra la fine del Bronzo e l’inizio dell’Età del Ferro attraverso una serie di materiali che, per quanto scarni superstiti di un saccheggio prolungato del giacimento archeologico al momento della scoperta, ancora riescono a dar conto della temperie culturale di questi tempi di transizione e mutamento. La frequentazione degli spazi sacri della grotta ha lasciato, tra il X e il IX a.C., un supporto tripode in bronzo di tradizione cipriota elaborato in una bottega indigena che ha arricchito il manufatto di originali pendenti a ghianda e di una teoria di teste taurine; in momenti del IX e dell’VIII a.C. nella grotta vengono deposte ceramiche locali decorate con motivi a cerchielli, come la lucerna a foglia, una navicella in bronzo e un diadema aureo, i cui motivi decorativi ricordano gli splendidi athyrmata che i Fenici esponevano nei porti dell’Egeo. La fibula a doble resorte, quanto resta di dediche di vesti alla divinità, individua con immediatezza il rapporto dell’area atlantica con l’isola, il cui potenziamento si deve all’iniziativa dei Phoinikes; oggetti analoghi si ritrovano a Pitecusa e a Bitia, in questo secondo sito eseguite in ferro bagnato in argento, ornamenti di “uomini in armi” che esibiscono le loro panoplie, tra le quali i caratteristici stiletti da lancio indigeni, vasi da vino etruschi, unguentari greci e di tradizione greca. La scarna bronzistica figurata della regione sulcitana che possiamo ricondurre alle fasi del Ferro fa intravedere sia la vivacità culturale delle botteghe locali, in cui si radicano e fermentano stimoli, suggestioni e mode orientali, sia gli orientamenti ideologici di una committenza che va assumendo connotati di progressiva emergenza e distinzione attraverso la combinazione originale di cifre di tradizione autoctona e di modelli allogeni. I quadri sociali di riferimento, ancora troppo tenui e frammentari, impediscono di definire questi “signori di bronzo” come aristocratici, ma essi, con l’esibizione delle proprie armi e armature o della propria abilità negli athla, appartengono all’itinerario che disegna le nuove società dominanti nell’Età del Ferro nell’area mediterranea e atlantica. Il guerriero che impugna con la sinistra lo scudo con gli spadini applicati e stringe nella destra la spada, oggi non conservata, indossa un’elaborata armatura completa di elmetto cornuto e reca sul dorso, assicurata a due anelli di sospensione, l’asta (o una lancia) con l’insegna familiare o di clan, oggi scomparsa; si tratta plausibilmente non di una veste cerimoniale, da parata, ma della reale panoplia di un uomo che celebra socialmente il proprio protagonismo “gentilizio”. Un secondo personaggio, con il capo coperto da un elmetto crestato, è infagottato in una curiosa corazza borchiata che ricorda i grembiali catafratti degli arcieri di Sardara, per i quali già Lilliu richiamava generiche mode orientalizzanti; i guerrieri sono accomunati anche dagli ornamenti (o protezioni) ad anello che serrano il collo. Questi personaggi hanno, a mio parere, un possibile riferimento “archeologico” nei contesti funebri della necropoli fenicia di Bitia, della fine del VII a.C.: qui i defunti abbinano alle armi in ferro di tipo “interna- zionale” (spade, lance, pugnali) e agli stiletti da lancio e ai pugnali nuragici in tecnica bimetallica (bronzo e ferro) sontuosi ornamenti in metallo: bracciali in argento, fibule e cavigliere in ferro bagnato in argento, anelli in argento con scarabeo inserito nel castone o con cartiglio di tradizione “faraonica”. Sono gli uomini emergenti di quella società sardo-fenicia in formazione, di quelle comunità prodotte da forti processi di interrelazione e commistione culturale che disegnano orizzonti “meticci” di grande vitalità e impulso culturali. L’uomo che usa l’arco tenendosi in piedi sul dorso di un animale, verosimilmente un cavallo, ha una lunga serie di modelli e riferimenti orientali, tra i quali di particolare interesse sono gli esemplari di coroplastica cipriota e fenicia tra Bronzo e successivo Ferro, che presentano l’associazione uomo-cavallo in contesti di tipo agonico; l’arciere saldamente assicurato all’animale per mezzo delle briglie che circondano il bacino e salgono intorno alle spalle dell’atleta. I cavalli dovettero essere certamente rari e preziosi nella Prima Età del Ferro, quindi socialmente e ideologicamente rilevanti per chi li possedeva; se fino a oggi nessuna attestazione del cavallo è stata ritrovata dagli osteologi negli insediamenti fenici, l’animale appare in un contesto indigeno, il santuario di Siligo. Il santuario di Fluminimaggiore, immerso nella verdeggiante vallata di Antas, è lo specchio delle pulsioni della società indigena tra il IX e l’VIII a.C.; all’area sacra fa riferimento, secondo una tipologia e un modello distributivo meglio noti nel celebre santuario di Monte Prama in territorio di Cabras, una serie di tombe individuali a inumazione del tipo a pozzetto, una delle quali ha restituito una figurina di divinità ignuda che impugna la lancia, di sicura influenza egeo-orientale. È il dio padre, babay, che sarà successivamente ripreso dal punico Sid e dal romano Sardus Pater; ma, in questi versanti cronologici, è il dio cacciatore cui sono dedicati, entro fossette rituali, faretrine, fasci di spiedi, figurine di cinghiale e parti e porzioni di animali; un altro bronzo figurato, la cui associazione con la necropoli è soltanto probabile, esibisce, accanto al gesto orientale della preghiera nella mano aperta, il pugnale appeso al petto, probabile segno di status sociale o di identificazione con un gruppo particolare entro la comunità di appartenenza. L’apparizione di tombe singole di cultura indigena, ancora pochissimo rappresentate nell’isola, ma non per questo da considerare, come abbiamo visto, rare o eccezionali, si accompagna, nei casi noti, a espressioni artigianali e culturali di estremo rilievo, come bronzi figurati, arredi di particolare sontuosità la statuaria monumentale, elementi tutti nei quali i fermenti orientali sono ben presenti e profondamente operanti; ma ad Antas vi sono anche uomini che si incontrano con la forza dirompente della scrittura e che cercano di carpirla nella sua essenza magica e nel suo valore sociale; è il caso dello spillone indigeno in bronzo, già ricordato, che conserva una corta iscrizione incisa in lettere fenicie, indicazione forse del nome del dedicante o del possessore. I paesaggi che abbiamo evocato, quelli straordinari di Monte Prama e di Sant’Imbenia o il santuario della valle di Antas, sono paesaggi nei quali sono all’opera potenti strumenti di dialogo e di confronto, sono, in definitiva, paesaggi di potere, in cui si forgia la nuova fisionomia dell’Età del Ferro; ma dobbiamo evocare uno scenario analogo, purtroppo soltanto intuibile, di nuovo nella regione sulcitana, nel sito di Crabonaxia (San Giovanni Suergiu), dove, forse in connessione con una necropoli, appare di nuovo la statuaria monumentale. Qui una ricognizione di superficie ha recuperato, tra le pietre ammucchiate dal dissodamento dei campi, una straordinaria testa umana in pietra arenaria, sormontata da un alto e ricurvo copricapo a lebbadè, ornato da zanne di animale; i tratti del volto, rovinatissimi, conservano ancora un occhio reso con lo stilema del doppio cerchiello e il mento fortemente appuntito; altri frammenti sembrano appartenere a un torso umano, solcato da una bandoliera, mentre più chiara è l’immagine di una palmetta, scolpita a rilievo e parzialmente dipinta in rosso. Anche nel panorama tradizionale delle tombe megalitiche, dette “di giganti”, emergono elementi di novità l’architrave di un sepolcro di questo tipo nel sito di Cramina Lana (San Giovanni Suergiu) conserva una rozza e corsiva figurazione che è forse interpretabile come una scena funeraria, una próthesis: vi appare un carro, una figura umana con le braccia tese e allargate, un’altra figura associata a un cavallo; dal medesimo territorio è nota un’altra lastra simile, con carro e figura con le braccia in alto. I motivi decorativi a triangoli che individuano il carro tornano in una serie di manufatti tipici dell’Età del Ferro, che siano le fiancate di alcune navicelle in bronzo, numerose ceramiche, i modelli di nuraghe o le pintaderas; la figura umana richiama strettamente iconografie orientali, come quelle documentate nel santuario di Santa Cristina a Paulilatino e, soprattutto, la straordinaria figura seduta (in trono?) che leva le braccia in alto dal territorio di Furtei, esposta nel Museo archeologico nazionale di Cagliari. L’associazione dell’altra figura umana con il cavallo richiama di nuovo un possibile contesto di giochi funebri, associati al funerale, secondo modelli già suggeriti per la celebre figura di atleta pugilatore della tomba di Cavalupo di Vulci, datata entro la seconda metà del IX a.C., e forse presenti in alcune iconografie di Monte Prama a Cabras. La società vivace e variopinta che stiamo tentando di evocare in queste pagine, per quanto disperatamente smembrata dal suo tessuto connettivo originario, assomiglia davvero molto poco a una società di “fantasmi”.
L’Età del Ferro è anche, nel divenire del fenomeno storico degli stanziamenti fenici e greci sulle coste mediterranee, il periodo di formazione dei nuovi centri urbani, la genesi della città in questo lungo e articolato processo, gli autoctoni dell’Occidente non sono il topo di campagna davanti al topo di città della famosa fiaba che spesso è divenuta materia di ricostruzione storica. Dobbiamo, per prima cosa, interrogarci su cosa intendiamo, in queste fasi storiche, con il nome “città”; sul tipo o modello di insediamento che nasce attraverso un fenomeno forte e costante di interrelazione che unisce comunità indigene e naviganti provenienti dall’Egeo e dall’Oriente e che modifica entrambi, con pari profondità. Non nasce ora la città che culturalmente, figli dell’era moderna e del colonialismo, siamo portati a riconoscere anche dove non c’è; si formano, viceversa, insediamenti fluidi e flessibili, che continuamente si aprono e si modificano, si riformano e si rigenerano tra precarietà e continuità come le terre che lottano con le maree a Gadir o a Lixus. Sono gli insediamenti aperti del Mediterraneo in perenne movimento, che vivono prima del karum e della polis, che nascono, a volte, dalle loro radici e dalle loro esperienze; la città organizzata e gerarchicamente ordinata e frazionata, la città chiusa e circoscritta sarà in Sardegna, e in tempi diversi e successivi, quella cartaginese. I primi secoli del Ferro (IX e VIII a.C.) sono i tempi dell’insediamento dei saperi condivisi, delle comunità miste che organizzano paesaggi del potere e della conoscenza, di indigeni che incrociano e fondono le loro tradizioni e le loro esperienze con genti altre, che si apprestano ad abitare lontano da casa; questo è il significato vero del termine greco apoikía, che non significa “colonia”, così come interrelazione e osmosi non sono colonizzazione. Nella regione sulcitana Sulky è uno degli insediamenti di cui stiamo parlando, il principale del territorio, fondazione fenicia degli anni 770-750 a.C.; l’abbondante seriazione delle ceramiche fenicie e le associazione con vasi euboici e pitecusani di fase tardo-geometrica e corinzi del protocorinzio antico non lascia dubbi al riguardo. La componente materiale di tradizione autoctona è poco attestata nei livelli dell’insediamento fenicio dell’area dell’Ospizio, anche considerando la circolazione di macine indigene; ma i dati dell’abitato vanno riconsiderati e riletti in parallelo con le indicazioni che provengono dal santuario tofet dell’insediamento, che forniscono elementi più organici e continui sotto questo punto di vista. Il tofet è in realtà il santuario dove si mescolano le etnie, dove circolano, accanto ai vasi fenici, urne di tradizione indigena e altri oggetti, come la mazza in basalto o le punte in ossidiana, che testimoniano dei riti e della pietas di famiglie etnicamente composite; nel santuario, fondato in parallelo alla nascita dell’insediamento e dedicato alla conservazione e alla sopravvivenza della comunità l’elemento indigeno assume, come è ovvio, spessore e rilevanza e una più ampia visibilità archeologica. Ma il fenomeno delle comunità allargate, la rete dell’interrelazione e dell’osmosi, si diffondono in tutta la regione; nella necropoli di Monte Sirai un adolescente è sepolto in un grande vaso che si ritiene, inesplicabilmente, di una cultura preistorica (Monteclaro) scavata e musealizzata ante litteram dai Fenici e non invece, come pare ovvio, oggetto semplice e funzionale della coeva produzione indigena; ceramiche indigene e fenicie si trovano fianco a fianco negli strati d’uso dell’abitato che circonda le maestose torri del nuraghe Sirai; un’enclave fenicia vive a Tsirimagus, all’ombra delle torri e delle cortine di un altro imponente nuraghe; un’altra si organizza ai piedi del nuraghe di Tratalias. È il tempo in cui ceramiche nuragiche si diffondono nel Mediterraneo e nell’Atlantico e in cui le comunità autoctone della Sardegna diventano protagoniste attive della nuova rete mercantile che Fenici e Greci stendono su questi mari. Tutto questo potrebbe definirsi “meticciato”, secondo quanto suggerisce Alfonso Stiglitz ; tutto questo, a mio parere, appartiene alla realtà composita e articolata del processo storico, a un mondo in divenire, a una realtà in cambiamento: changing in progress. Gli indigeni fantasmi che popolerebbero la Sardegna dell’Età del Ferro sono il frutto dell’ideologia moderna; la bella età dei nuraghi dell’Età del Bronzo fu davvero bella, anzi bellissima, ma anche destinata a vivere e a trasformarsi nella nuova dimensione degli anni del Ferro, a comporsi in nuovi fenomeni di cultura e di costume nella cornice di quel mare dinamico e in perenne movimento, strada di incontri, che è il Mediterraneo antico. In una Sardegna dell’Età del Ferro, dove scenari possibili e probabili nascono da necropoli impossibili, si estinguerà finalmente una consuetudine antica: quell’abitudine a dare cronologie incomprensibili e inutili, che collocano in un limbo nebbioso e opaco processi storici precisi e di grande spessore; non vi saranno più nell’isola luoghi e giacimenti legati a tempi senza tempo: quelli collocati, o meglio sospesi, nel “Bronzo Finale-Prima Età del Ferro”.
Fonte: Tharros/Felix 4
Nelle immagini:
Lo spillone con segni di scrittura pubblicato da Bernardini su Tharros/Felix