Dici planetario e subito pensi a una semisfera buia, magari gonfiabile, nella quale infilarsi da un pertugio. Una cupola dove un proiettore guidato da un computer ricrea in pochi metri lo spettacolo della volta celeste. Ma non tutti i planetari sono così. Quello in mostra da domenica scorsa a Basilea, per esempio, non è fatto per entrarci: tutt’al più, per essere tenuto in mano. Esposto per la prima volta al pubblico in occasione della mostra “Il tesoro sommerso. Il relitto di Anticitera”, inaugurata il 27 settembre presso l’Antikenmuseum della città svizzera, è assai più simile a un mappamondo. Ed è una ricostruzione – come racconta Jo Marchant sulle pagine dell’ultimo numero di Nature – d’un leggendario planetario forse esistito nel III secolo a.C.: il “planetario di Archimede”.
Si tratta d’un globo di rame d’una ventina di centimetri di diametro, incastonato per metà in una scatola di legno, in grado di riprodurre, tramite un intricato sistema formato da 24 ingranaggi in metallo, il moto apparente di alcuni corpi celesti: del Sole e della Luna, certo, ma anche degli “astri vaganti” Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno – i cinque pianeti conosciuti nell’antichità. A riportarlo in vita, dopo oltre duemila anni, con tanto d’incisioni delle principali costellazioni, è stato Michael Wright, ex curatore dello Science Museum di Londra. Ma perché Archimede? Ebbene, la più antica descrizione d’un globo dalle caratteristiche analoghe a questo da lui riprodotto, spiega lo stesso Wright, la si trova nel De re publica di Cicerone, dove si narra che fu portato via da Siracusa nel 212 a.C., quando Archimede venne ucciso. E che lo strumento fosse stato ideato, forse addirittura costruito, dallo stesso Archimede.
Tutto al condizionale, com’è ovvio attendersi parlando d’un oggetto al limite tra fantasia e realtà che – se mai veramente è esistito – oltre 22 secoli di storia separano da noi. E non è un caso se la disputa sulla plausibilità e le caratteristiche del “planetario d’Archimede” sia una di quelle che appassionano schiere di storici, archeologi e persino ingegneri, anche qui in Italia. Ma la ricostruzione di Wright si affida a qualcosa di più che non vaghe testimonianze d’autori classici. La sua seconda fonte d’ispirazione è infatti un’altra celebre scatola celeste dell’antichità: la prodigiosa macchina di Anticitera. E questa volta si tratta di un oggetto sulla cui esistenza non vi sono dubbi, visto che è stato rinvenuto nel 1900 in un relitto naufragato, come certificano le datazioni, nel I secolo a.C. Un calcolatore astronomico ingegnosissimo, basato su 30 ingranaggi di bronzo e capace di prevedere – come spiegava la stessa Marchant, sempre su Nature, nel 2006 – persino le date delle eclissi, sia di Sole che di Luna.
Ed è proprio per indagare le potenzialità e le capacità tecniche dell’epoca che Wright ha indossato i panni – e utilizzato gli strumenti – d’un artigiano dell’antichità e si è cimentato in prima persona nella ricostruzione: per dimostrare cosa allora fosse possibile fare. Perché sono in tanti gli studiosi che ne scrivono e ne descrivono, di meravigliosi congegni antichi, dice lo stesso Wright, ma «sono pronto a scommettere che la maggior parte di loro non ha mai nemmeno provato a realizzarne uno». Lui, invece, voleva essere certo che la sfera di Archimede, realtà o leggenda che fosse, quanto meno non risultasse impossibile da costruire. Il risultato sembra dargli ragione.
Fonte: Media INAF | Scritto da Marco Malaspina