Regia: Kim Ki DukOrigine: Corea del SudAnno: 2011Durata: 100'La trama (con parole mie): a seguito del trauma di un incidente occorso ad un'attrice durante le riprese di Dream e della delusione cocente rispetto agli ambienti cinematografici, Kim Ki Duk, regista di fama mondiale, dal 2008 si ritira in montagna, in una baita priva anche del bagno, vivendo in solitudine e, colto da una sorta di "blocco del regista", ridotto a filmarsi per potersi sentire vivo.Il risultato è una sorta di ibrido tra dramma esistenziale e documentario in cui il cineasta mette a nudo parte della sua vita, delle sue aspirazioni e dei successi, autocelebrandosi eppure mostrando tutti i punti deboli di una persona ferita quasi una storia importante fosse finita improvvisamente.A volte, partire con il freno a mano tirato può essere utile, in merito alle aspettative più o meno rispettate di una visione: nonostante la sua fama ed i fan da una parte e dall'altra della barricata del Cinema d'autore - spartiacque fornito, nel caso del regista coreano, da "Primavera, estate, autunno, inverno... E ancora primavera" -, quest'ultima fatica di Kim Ki Duk era stata accolta tiepidamente, apparendo troppo autocelebrativa agli appassionati e decisamente ostica per il pubblico occasionale.Dunque, pronto ad una visione che si sarebbe potuta rivelare irritante - le bottiglie scalpitavano già nel fodero -, ho approcciato ad Arirang pensando che sarebbe stato il primo titolo dell'autore di Ferro 3 e Bad guy ad essere stroncato dal sottoscritto, nel pieno spirito di questo ottobre in cui spesso e volentieri mi sono cimentato nel bottigliamento selvaggio di nomi altisonanti.Al contrario di quanto mi aspettassi, però, nonostante le mie più battagliere intenzioni, mi sono ritrovato ad apprezzare - e molto, in alcuni passaggi - quest'anomala fatica di Kim Ki Duk, che ancora una volta dimostra di essere un vero e proprio fenomeno del montaggio - da manuale dall'inizio alla fine - nonchè un uomo dalle mille risorse - vederlo assemblare una macchina per il caffè fatta in casa memore del suo passato in fabbrica rende bene l'idea di quanto possa essere importante, come regista, avere un'ottima manualità - e, perchè no, con tutti i limiti, le idiosincrasie e gli sbalzi d'umore che caratterizzano anche tutti noi che non siamo certo cineasti di fama mondiale.Se, dunque, a tratti il tono appare effettivamente autocelebrativo - l'insistita inquadratura dei talloni segnati, il dialogo con l'ombra, le locandine dei film appese nella baita accanto ai premi ricevuti a Venezia e Berlino -, nel complesso questo tentativo risulta genuino ed interessante, specialmente nel momento in cui, fornendo un'interpretazione di quelle che sono le sue paure, esperienze e domande rispetto al futuro nel corso di un dialogo che mi ha riportato alla mente i deliri di Gollum e Smeagol - e anche qui, montaggio da fuoriclasse -, Kim Ki Duk indaga sul suo disagio cercando di portare alla luce tutto quello che, nel corso degli anni e della sua ascesa come icona del Cinema mondiale, pare essersi perduto lungo la strada.I riferimenti ai collaboratori e produttori scomparsi di colpo - andati dove c'era garanzia di più denaro, con ammissione di avere, a volte, fatto lo stesso - o agli organi statali che conferiscono medaglie legate alla fama conquistata nel mondo senza neppure preoccuparsi di vedere film che criticano la società che loro stessi rappresentano appaiono assolutamente sinceri ed attuali, e se meno interessanti sono gli attimi di commozione del regista nel riscoprire proprio il già citato "Primavera, estate, autunno, inverno... E ancora primavera" le sue invettive da ubriaco - quel "figli di puttana" neanche fossimo al saloon è stato assolutamente mitico -, la cacca all'aperto il mattino, la cucina, i racconti del passato ed il cibo al gatto randagio aggiungono spessore ad un personaggio sfuggente e a suo dire - e non solo - solitario, che ha trovato nella regia uno scopo ed una strada in grado di strapparlo da una vita di stenti alla quale ora torna ad avvicinarsi per trovare uno stimolo a ricominciare.Un'opera certo non per tutti - ed intendo anche gli stessi fan del regista -, ma in grado di portare ad un altro livello il discorso autobiografico tentato da Joaquin Phoenix e Casey Affleck con I'm still here, fornendo un ritratto a suo modo unico che gli studenti di Cinema e gli aspiranti registi - e montatori - non dovrebbero perdersi per nulla al mondo.In fondo, passi falsi o no, look da senzatetto o Mac di ultima generazione, abbiamo di fronte uno dei talenti più incredibili prodotti dalla settima arte negli ultimi vent'anni.MrFord"Oh dancing with myself
oh dancing with myself
well there's nothing to lose
and there's nothing to prove
I'll be dancing with myself."
Billy Idol - "Dancing with myself" -