Nel piccolo villaggio di Vernashen, le orecchie piene di grilli e rane, faccio un po' d'ordine in questa giornata senza notte. Il primo giorno in Armenia.
Perché in Armenia si arriva giusto prima dell'alba, dopo un viaggio notturno: giusto in tempo per uscire dall'aeroporto, guardarsi un po' spaesati in giro e poi appena fuori Erevan, lasciare correre gli occhi senza briglie. La luce sgraziata dei casinò e delle slot machine, che si dispiegano a 15 km dal centro secondo l'ipocrita legge, sta per cedere il passo ai primi bagliori dell'alba e d'un tratto, come per caso, alzi lo sguardo e la vedi là, la montagna, l'Ararat, appena velata dal raggio rosato del nuovo giorno che via via si fa sempre più acceso."Sono uscito dalla tenda all'aria fresca del mattino. Il sole era sorto. Nel cielo chiaro biancheggiava una montagna innevata a due cime. 'Cos'è quella montagna?' chiesi io e mi tesi all'ascolto della risposta: 'E' l'Ararat'. Che impatto hanno i suoni! Guardai avidamente la montagna biblica, vidi l'arca che attraccava alla sua cima nella speranza di rinnovamento e vita: e il corvo e la colomba che volano via, simboli di castigo e pacificazione..." (Puškin, Viaggio a Arzrum)Si era offerto volentieri l'Ararat alla vista del grande poeta. Al suo pomposo antagonista, lo zar Nicola I, invece, pare che si fosse negato. Era rimasto incappucciato nelle sue nuvole ("Sono riuscito a vedere le nuvole che servivano l'Ararat", Mandel'štam) per tutto il tempo della sua augusta visita. Non ne capì forza e significato lo zar tracotante e, andandosene, sbottò come un bambino stizzito: "Ma anche l'Ararat non ha visto lo zar!" Evidentemente gli armeni se lo sono ricordati, quando a Erevan hanno cambiato il nome della centrale via "zarskaja", dello zar, e, con uno sberleffo magistrale e sottile, l'hanno intitolata a Puškin.Ararat. Elementare, come il suo nome, il balbettio di un bambino che gioca con le meraviglie delle vibrazioni laringee. Si staglia semplice, montagna dalla forma di montagna. Montagna-"tenda di nomadi" (Mandel'štam, cent'anni dopo Puškin) che non possiedono la terra che abitano. Monte-muta richiesta al cielo e memoria della frattura e della separazione.
A Erivan e a Ečmjadzinl'immensa montagna ha bevuto tutta l'ariaAh, poterla sedurre con un'ocarinao addomesticarla con un flauto, perché si sciolga la neve nella bocca (Mandel'štam)
La montagna ha bevuto tutta l'aria e ha assorbito tutti i pensieri, convogliandoli in un unico potente, massiccio simbolo. Ubiquo. Non ci abbandonerà quasi mai per tutto il viaggio, solo nella regione di Suynik, la più meridionale dell'Armenia lo perderemo di vista. Ma l'Ararat cresce su suolo turco, ha perfino un altro nome laggiù oltre quel confine così vicino (tutti i confini sono vicini e ben percepibili in Armenia).Sta sui soldi, stava sullo stemma della neonata repubblica armena. Negli anni Venti questo aveva suscitato le proteste della Turchia e la tradizione dice che l'artefice della politica sovietica dell'aerea, il raffinato Commissario del popolo per gli affari esteri Georgij Čičerin, avesse chiesto ai turchi se la luna fosse loro, visto che se l'erano messa sulla bandiera. La luna è lontana, ma l'Ararat è vicino, quasi puoi toccarlo e fa male non poterlo fare."Ecco l'Ararat. Purtroppo non è nostro". "Ne naš", sono le prime parole che sentiamo sulla montagna di Noè , sacra, atavica, in realtà monte-maschio. Fecondatore dell'altrettanto sacra terra di Armenia, che tutta viene dalla montagna, anche quando è piatta: "la montagna è morta, il suo scheletro si è sfasciato sul terreno. Il tempo ha invecchiato la montagna fino ad ucciderla, e quelle sono le sue ossa", così Vasilij Grossman scioglieva in parole il groppo di pietra che gli si era formato in gola all'arrivo a Erevan da Mosca.
"Non rovine: taglio fraudolento di un immenso bosco circolare,ancore-ceppi delle querce di un bestiale, fiabesco cristianesimo,sui capitelli rotoli di pietrosa stoffa saccheggiati da una bottega pagana,acini d'uva grossi come uova di colombi, volute di corna di montone,aquile non profanate ancora da bisanzio, con ali di civetta, irte di piume".
Una trentina d'anni dopo Grossman sbarca a Erevan con la musica dei versi di Mandel'štam in testa e con la saporosità delle sue impressioni sedimentate nell'inconscio a dettare osservazioni e azioni. "Alla stazione di Erivan sarei sceso con la mia pelliccia invernale in una mano e il mio bastone da vecchietto – il mio bordone ebraico – nell'altra..." (Mandel'štam, La quarta prosa). Grossman per la verità, aveva un cappotto nuovo e una sciarpa pesante e in mano un grosso manoscritto da tradurre, ma il senso di inadeguatezza e smarrimento è lo stesso: "Trascinarmi per le vie della capitale armena sotto il sole caldo con il cappotto felpato, il berretto e la sciarpa pesante... C'è qualcosa di mesto e ridicolo nell'immagine di un uomo di passaggio in una città sconosciuta".E allora Grossman cerca Mandel'štam, come in fondo Mandel'štam aveva provato a sovrapporre il proprio viaggio su quello puškiniano, un secolo prima. Grossman ripercorre le tracce della permanenza del poeta, chiede agli scrittori che incontra un ricordo. Ma quella grande poesia, fragrante pane sfornato per la vita di tutti, ma anche esclusivo gioiello forgiato a salvaguardia dell'unicità irripetibile di ciò che è vivo, non sembra aver lasciato segno. Solo lo scrittore Martirosjan (Kočar) ha vaga memoria di un tipo magro e nasuto molto povero, a cui aveva offerto due volte la cena e del vino. E Grossman si riconosce nel senso di solitudine del grande poeta e vi trova consolazione. Come per Mandel'štam, che Bucharin cercava invano di salvare allontanandolo da Mosca, anche il suo viaggio in Armenia è una specie di contentino offertogli dal potere che da poco aveva "arrestato" (e distrutto, crede lui) il lavoro di una vita, l'opera più preziosa, Vita e destino.Entrambi, Mandel'štam e Grossman, vivevano probabilmente quel viaggio nella terra di Armenia come una pausa sospesa in un destino compiuto di cui sentivano tutta l'incompiutezza. Entrambi maledivano chi è sordo e muto perché la loro opera pareva non aver trovato eco o risposta, entrambi si erano accostati all'Ararat come nuvole pesanti che un vento gelido del Nord aveva dissipato prima che potessero sciogliersi in pioggia feconda. Più di mille anni prima, al di là della Montagna, l'aveva già scritto San Gregorio di Narek, un san Francesco armeno:
Non farmi soffrire le doglie del parto senza partorireAffliggermi senza piangereMeditare senza gemereAnnuvolarmi senza sciogliermi in pioggiaAndare e non arrivare./.../Non farmi, Signore, un sacrificio offrireE sapere che indegno è quel sacrificio.E maledire chi è sordo e muto.Non fare che in sogno o in realtà un giornoTi veda per un unico istante solo per poiNon placare la sete mia eterna!