Posted 1 dicembre 2013 in Armenia, Caucaso, L'occhio sul mondo with 0 Comments
di Luca Vasconi
Nel 2010, di ritorno dalle mie lunghe peripezie asiatiche, varcata la frontiera tra Iran e Turchia, impiegai del tempo e spesi notevoli energie nervose, nonostante le evidenti e immediate prove che le reflex digitali consentono di fornire, per convincere un “simpatico” ed egocentrico militare turco, materializzatosi dal nulla, che l’oggetto della mia foto non era lui, ma un soggetto di gran lunga più interessante: il monte Ararat.
Il mio sguardo si orientò, estasiato, verso l’alto, alla fine di una lunga pianura. Non fu certo una minuscola postazione militare, sapientemente mimetizzata tra gli arbusti, l’obiettivo del mio interesse e del mio scatto. Ma vallo a spiegare!
Con i suoi imponenti 5165 m s.l.m., la sua storia millenaria, il suo alone di sacralità, il monte Ararat domina il territorio circostante, con la forza attrattiva di un magnete gigante.
La sua presenza è forte: lo vedi, lo senti. Sei girato in direzione contraria? È fuori dalla tua visuale? Sai comunque che Lui è lì, lo percepisci. Tu osservi Lui. Lui osserva te. E non sei il solo. Ha osservato e vegliato su generazioni e generazioni di uomini, per secoli. Come ci si sente piccoli, al cospetto del monte Ararat!
Non che fossi digiuno di montagne: le Alpi sono casa mia, le splendide Dolomiti un vanto del mio paese; vivi i ricordi dei paesaggi mozzafiato delle Ande sudamericane, dalla Patagonia al Venezuela; fresche e scolpite nella mia memoria le immagini delle celebri vette della catena Himalayana, con i suoi maestosi ottomila. Montagne superbe, altezze anche superiori a quelle del monte Ararat. Paesaggi meravigliosi, per certi versi anche più suggestivi.
Ma Il monte Ararat è diverso, è un unicum: una montagna di cinquemila metri che si staglia, solitaria, nel bel mezzo di un territorio pianeggiante. Puoi vederne la figura per intero, dalla base fino alle cime perennemente innevate, in tutta la sua imponenza.
Puoi viaggiare per chilometri e chilometri, varcando le frontiere di tre stati: Iran, Turchia ed Armenia e lui è sempre lì, imperterrito, a tenerti compagnia.
Il fascino che l’Ararat suscitò in me fu immediato. Ne fui colpito. Ma non era quello il tempo per una conoscenza approfondita. La sua vista lentamente svanì. Continuai in direzione di Van, per tuffarmi nel cuore del Kurdistan turco.
Una foto non bella, salvata dalle grinfie del vanitoso militare turco, rimase a ricordo della mia immediata infatuazione con questa montagna.
Fu il viaggio in Armenia, a cavallo tra febbraio e marzo del 2013, a farmi comprendere quanto quelle prime sensazioni fossero esatte: l’amore per l’Ararat riesplose fulmineo. Fu una presenza costante nel piacevole periodo trascorso nel paese del Caucaso.
Un’emozione provata in passato solo al cospetto dei miei adorati vulcani: l’Etna, lo Stromboli, il Vesuvio, i vulcani dell’Indonesia. Elementi naturali potenti, capaci di influenzare tutto l’ambiente circostante, la vita e il carattere delle persone che abitano nei dintorni. Anche l’Ararat è un monte di origine vulcanica. Non è più attivo da secoli, d’accordo (l’ultima eruzione risale all’età del bronzo), ma la sua presenza è viva, palpabile.
Nelle giornate di sole è ben visibile dalla capitale Yerevan; domina incontrastato sulla città di Artashat; dallo splendido monastero di Khor Virap ti sembra addirittura di poterlo toccare.
Una vicina, sottile e beffarda linea di confine lo rende irraggiungibile agli armeni: Il monte è in territorio turco. La frontiera tra i due paesi è chiusa, a causa delle irrisolte tensioni storico-politiche tra Turchia e Armenia.
“Vedere ma non potere”: un ulteriore motivo di fascino per me, una spina conficcata nel cuore di ogni armeno.
Uno dei luoghi più importanti, simbolici ed evocativi per la storia armena, il Memoriale per le vittime del Genocidio Armeno del 1915, nella capitale Yerevan, gode di una splendida, ma allo stesso tempo “crudele”, vista sul monte Ararat.
Una frontiera distante pochi chilometri ma invalicabile, protetta da imponenti fortificazioni militari, spezza il sogno di poter raggiungere il monte, situato in una terra storicamente appartenente all’Armenia, che gli armeni rivendicano come propria. Vedere la “loro” Montagna Sacra nelle mani dei turchi, che tanta sofferenza nel corso del ‘900 hanno inferto al loro popolo, è fonte di rabbia e dolore.
Ogni singolo armeno, da coloro che vivono nel paese, alle milioni di persone che, a causa della diaspora armena, vivono in Europa, negli Usa e sparsi per il mondo, sente “suo” questo monte.
Il nome “Ararat” in lingua armena significa “luogo creato da Dio”. In lingua turca, per ironia della sorte, “montagna del dolore”, il sentimento provato dagli armeni al di là del confine.
La montagna ha una grande valenza simbolica e religiosa, ancor più in un paese come l’Armenia, che fu il primo paese al mondo ad adottare grazie a San Gregorio Illuminatore, nell’anno 301, il Cristianesimo come religione di stato, precedendo di pochi decenni l’impero romano.
Secondo la Bibbia, Noè giunse sulla cima dell’Ararat quando il diluvio universale, scatenato da Dio per punire gli uomini, ebbe finalmente termine dopo cinque lunghi mesi. La leggenda vuole che l’Arca riposi tra i ghiacci delle sue alte vette.
Elementi religiosi e leggende hanno contribuito a render ancor più grande l’aura di mistero che circonda questa montagna.
A partire dal XIX secolo, numerose spedizioni si sono avventurate, senza successo, sulle sue cime innevate alla ricerca dell’Arca.
Misteriose foto aeree, scattate alla fine degli anni ’40, rivelano la presenza sulla cima del monte di uno strano oggetto che alcuni studiosi biblici sostengono esser i resti dell’Arca di Noè. L’oggetto misterioso è conosciuto sotto il nome di “anomalia dell’Ararat”, e ha dato adito a suggestivi dibattiti che, fino ad oggi, per la verità, non hanno trovato alcun riscontro oggettivo.
La zona al confine tra la Turchia e l’Armenia, un paese che fino a pochi anni fa faceva parte dell’impero sovietico, rivestì durante gli anni della guerra fredda un sensibile interesse strategico-militare. E’ tutt’oggi una zona fortemente militarizzata. Le autorità turche non consentono di raggiungere le vette del monte.
Nel 2004 una spedizione organizzata per risolvere il mistero dell’”anomalia dell’Ararat” fallì per mancanza di permessi: le autorità turche negarono la scalata alla vetta. Il mistero, protetto da “segreto militare”, può oggi dormire sonni tranquilli, aumentando il misticismo legato a questa vetta.
Nei giorni trascorsi in Armenia più volte mi recai nelle zone ai piedi del monte Ararat.
La visita al meraviglioso monastero di Khor Virap, rappresentato su ogni depliant e cartolina, fiore all’occhiello del turismo armeno, fu per me un’ottima scusa per perdermi nella pianura circostante e dedicarmi al mio principale interesse: il contatto con la gente del posto, le loro storie di vita.
Dove vai oggi? Le domande di Anna e Armen, gli accoglienti fratelli proprietari dell‘Hostel Glide, la casa-famiglia in cui alloggiai a Yerevan. “anche oggi torno a Khor Virap”, la mia risposta, davanti alla succulenta colazione preparata dalla loro madre.“Di nuovo? ma non l’hai già visitato il monastero?”
C’è voluto poco tempo perché la famiglia Sargsyan iniziasse a conoscere “l’anomalo” viaggiatore che stavano ospitando: ai magnifici monasteri e alle altre attrazioni turistiche dell’Armenia dedicai qualche ora. Dedicai invece giorni al perdermi, in compagnia della mia reflex, nei campi, nelle piccole città e nei mercati della zona ai piedi dell’ Ararat. Girovagai nei quartieri fatiscenti della città di Artashat e nelle strade fangose di Garni, tornando sempre entusiasta, con qualche foto in più e le mie piccole/grandi storie di vita.
“Buona giornata Luca, stasera ci racconterai le tue storie”, il loro saluto mattutino accompagnato dagli scodinzolii di Brinkley, il simpatico labrador della famiglia.
Tra le tante, ne racconterò una: curiosa, divertente, triste e folkloristica al tempo stesso. Uno di quei racconti che sembrano partoriti dal genio di Emir Kusturica, ambientata in Caucaso, anziché nei Balcani, nella quale la realtà si mischia, e a volte supera, la fantasia.
Mi aggiravo, in una fredda e soleggiata mattina di febbraio, nei pressi di un piccolo cimitero ai piedi del monastero di Khor Virap quando scorsi in lontananza un prete con intorno un capannello di gente. Mi avvicinai e osservai, in silenzio, la cerimonia funebre, ormai quasi giunta al termine. Un anziano signore si avvicinò, mi salutò e con con gentilezza mi presentò alle altre persone.
“Sei italiano? magnifico!” “Tu oggi sei nostro ospite amico, tu sei un italiano vero, e non puoi dir di no!” mi fu detto, in un discreto inglese.
Mi ritrovai, a distanza di dieci minuti, nella macchina di Nazeli e Azad, i figli dell’anziana donna deceduta, senza la più pallida idea di dove fossimo diretti.
Un fragoroso coro partì all’unisono in mio onore: “l’italiano”, Il tormentone anni ’80 di Toto Cutugno, fece tremare i vetri della vettura: “ lasciatemi cantare con la chitarra in mano, lasciatemi cantare una canzone piano piano…perché sono un italiano, un italiano vero!”. Io ne conoscevo solo il ritornello, loro ogni singola parola, in perfetto italiano!
Passai le seguenti cinque ore a “festeggiare un funerale”, in compagnia di un centinaio di persone mai viste prima. Mi misero a capotavola, davanti a un tavolo lunghissimo, inbandito di ogni ben di dio, cibo sufficiente a sfamare Noè e i suoi animali per tutti i cinque mesi del diluvio. Infiniti, toccanti brindisi ad alto tasso alcolico e popolari canzoni armene, in onore della deceduta, si alternarono a gioiosi brindisi inneggianti alla solenne amicizia tra Italia e Armenia, accompagnati dal repertorio completo delle canzoni di Pupo, Adriano Celentano, Al Bano & Romina Power e Toto Cutugno, in mio onore.
L’”innocuo” Festival di San Remo, negli anni ’80, fu uno dei pochi “prodotti” dell’ occidente che riuscì a rompere il muro della censura, spopolando sulle televisioni sovietiche. La conseguenza di questa storica, clamorosa apertura all’occidente è che ancora oggi, nei paesi dell’ex impero sovietico l’Italiano più famoso non sia Leonardo da Vinci, ma Pupo. “Gelato al cioccolato” batte, e di gran lunga, la Gioconda. Non vi sono dubbi.
Al cospetto dei mie ospiti mi sentii impreparato, per pessime qualità canore e scarsa conoscenza dei testi dei miei illustri compatrioti. Arrivai sul punto di pensare, Cutugno mi perdoni, di non esser un italiano vero.
La vodka lenì l’imbarazzo. La mia onorevole italianità fu presto ristabilita.
Il viaggio in Armenia terminò senza che riuscissi a svelare il mistero dell’anomalia dell’Ararat; lo zoom della mia Canon, purtroppo, non fu così potente da permettermi di passare alla gloria immortalando l’Arca.
Scoprii, in compenso, l’affascinante mistero dell’anomalia del funerale/festa ai piedi dell’Ararat, una tradizione da noi decisamente poco in voga, che fa riflettere sul diverso approccio culturale nei confronti della morte e sui diversi modi di esorcizzare il dolore.
Il reportage fotografico su questa mia ultima bizzarra esperienza, fatte salve un paio di foto miracolosamente non sfocate, è naufragato nella vodka. Gli eventi mi travolsero, vissi ogni attimo. Scattare sotto i fumi dell’alcol, con un bicchiere nella mano sinistra e un formaggio di capra armeno nella destra non sarebbe comunque stato facile, credetemi.
In compenso, da quel indimenticabile giorno, so con certezza come vorrei che il mio funerale fosse “festeggiato”: tra, mi auguro, una cinquantina d’anni, come colonna sonora della mia dipartita pensavo però a David Gilmour & Roger Waters. Al Bano & Romina mi scuseranno.
Benvenuti in Armenia, ai piedi del monte Ararat: qui il reportage fotografico
Tags: Ararat, Arca di Noè, Armenia, genocidio armeno, Khor Virap, Luca Vasconi, Yerevan Categories: Armenia, Caucaso, L'occhio sul mondo