Il problema più grande che si trova ad affrontare un autore, è che da una parte deve rendere le storie molto concrete. Dall’altra, viene assalito da una smania di ficcare dentro le pagine tutto il proprio mondo: ma come tutti i mondi, è esteso. Molto, persino troppo. Possiamo dire: infinito?
Non si tratta solo di levare dalla pagina quindi: bensì di respingere il richiamo dell’infinito che una pagina suscita. Credo che qualcosa del genere succeda anche a chi scala.
Davanti ha la parete: dura, impegnativa. Dietro e ovunque la vertigine del vuoto, la sua grandezza. Il suo potere di seduzione che può condurlo a perdersi. A lasciarsi andare, e precipitare.
Quando si affronta una storia, c’è la possibilità di creare di tutto e di più, e assieme a questa si presenta un’urgenza maggiore: rendere concreto ed efficace ogni tassello della storia. Non funziona sempre così, le sbavature non mancano mai, ma la tensione deve esserci eccome.
La soluzione adottata dalla maggior parte degli esordienti in un caso del genere è lasciarsi andare a quel richiamo infinito: e si cade. Probabilmente questo succede perché la fatica di rendere concreti i personaggi è davvero troppa, e poi alle spalle abbiamo anni di letture mediocri, e una pratica di scrittura effettuata solo con i temi.
Come si evita di precipitare? Non ne ho idea. Non esiste alcuna ricetta, poiché ogni essere umano ha peculiarità uniche.
Una possibile via d’uscita è la lettura; come si sa (come si dovrebbe sapere), permette di conoscere i rischi. In fondo quando affrontiamo la lettura de “I fratelli Karamazov” ci sentiamo annichiliti, ed è giusto che sia così. Ci rendiamo conto cioè, magari non in modo nitido, che l’impresa della scalata è riuscita. Dostoevskij è arrivato in vetta, ce l’ha fatta. È stato molto bravo, abile e perché no, fortunato. Non tutto è perfetto, ma al diavolo! È riuscito a respingere quel richiamo che lo avrebbe condotto alla perdizione: l’infinito mondo dalle infinite possibilità non ha prevalso. È riuscito a forgiarlo, a piegarlo ai suoi voleri.
E siamo di nuovo al punto di partenza, vero? Come diavolo c’è riuscito il nostro amico russo? Avrà letto un mucchio di libri, si capisce: ma questo cos’è un post, oppure il gatto che si morde la coda?
Insomma: c’è un modo per resistere alla tentazione, e arrivare finalmente in vetta?
Forse bisogna prima capire la tentazione, e dopo trovare la soluzione. Il richiamo che spinge a distogliere l’attenzione dalla parete della montagna (la storia), per rivolgerla al vuoto, è il nostro ombelico. Fino a quando non riusciamo a spostare lo sguardo da noi, alla storia, avremo sempre la pessima abitudine di occuparci del vuoto e della vertigine, invece dei personaggi. Questo accade perché la scrittura viene considerata solo come un mezzo per metterci in luce.
Che questo componente esista, mi sembra persino ovvio sottolinearlo: si scrive per mostrare agli altri il proprio punto di vista. Ma ricordiamoci che per avere un valore, non deve essere uno dei tanti, ma ben diverso.
Un autore vede cose che gli altri non possono o non vogliono scorgere.
Quando al centro della nostra attività c’è la storia, la parola, ci si affida a una buona difesa. Non è detto che si riesca a prevalere sempre, e sino in fondo. Però ci saremo organizzati. Avremo cioè un discreto equipaggiamento per iniziare la scalata nella giusta maniera. La vertigine ci sarà sempre, ma avremo qualcosa di solido sul quale contare.
Quello che alcuni non comprendono, è che una buona storia per essere tale deve per forza “ridurre” (o schiacciare), il suo autore. Se costui giganteggia allora si tratta di un’autobiografia. Certo, alcuni potrebbero citare Marcel Proust, la sua opera dove c’è lui che domina. Credo che sia un errore di valutazione. Prima c’è sempre e comunque la parola, dopo l’autore; e se l’opera arriva fino a noi, e ci parla ancora, questo accade proprio grazie al “passo indietro” che l’autore ha fatto.
Prima la storia, poi chi scrive.