Arrivederci Mostro - Luciano Ligabue

Creato il 04 novembre 2010 da Alboino

Nel mio I-Pod touch fra i tanti dischi ascoltati in questa estate, “Arrivederci Mostro!” di Luciano Ligabue è quello più consumato e non poteva essere diversamente. Di Ligabue spesso ho parlato nel mio blog definendolo se non il migliore, uno dei migliori interpreti in circolazione della musica italiana. Ho sempre avuto massima considerazione del cantautore emiliano dovuta a quanto ha saputo proporre al suo pubblico; che sia musica, poesia, film, letteratura, Luciano Ligabue ha sempre dato l’idea di purezza e onestà intellettuale che ne fanno un carattere unico nel panorama dello show-biz.
Questo suo ultimo lavoro in musica è da interpretare come una ventata di freschezza nello stantio e ammuffito circo della canzone nostrana, non foss’altro che per le sonorità proposte; diverse anche dai tipici arrangiamenti del nostro. Tutto dovuto alla produzione di Corrado Rustici che ha voluto un album intriso di chitarre da cui è scaturito un suono pieno e variegato. Attenzione però, perché la cifra stilistica di Luciano non ne viene per niente scalfita e sin dalle prime note si riconosce subito a chi appartiene il lavoro.
Con questo disco dal titolo emblematico Luciano Ligabue ha voluto prendere le distanze dai mostri che per tempo lo hanno attanagliato e ne canta con una tranquillità disarmante. A 50 anni appena compiuti Luciano Ligabue dice di aver raggiunto la giusta tranquillità per affrontare i propri mostri, sbattendoli in prima pagina già dalla copertina con l’enorme pesce sarago sbattuto in primo piano a reggere l’intero borgo popolato dagli stessi mostri. Non so se si possa definire l’album della maturità o se è l’ennesimo album in cui tutta la semplice onestà del cantautore viene a galla. Fatto sta che qui, ad eccezione di un paio di brani (il divertissement più puro di “Taca Banda” suonata insieme alle percussioni di suo figlio e l’hit “Un colpo all’anima”) tutti gli altri raccontano di una presa di posizione autorevole e precisa dell’autore nei confronti di quello che lo circonda.
Secondo me due sono i brani che si elevano su tutti gli altri per le tematiche trattate ma soprattutto per come viene fuori il Ligabue più vero. “Caro il mio Francesco” è da considerarsi il capolavoro del disco alla pari di “Quando mi vieni a prendere”, due brani distanti fra loro per contenuti ma che rivelano lo stesso lato della personalità di Ligabue: una sensibilità al di fuori del comune.
“Caro il mio Francesco” è senz’ombra di dubbio il seguito naturale dell’”Avvelenata” (capolavoro gucciniano che a noi cinquant’enni ci accompagnò durante le nostre vicissitudini fine settanta), quasi il secondo atto di un testo che abbraccia più di trent’anni di storia della canzone italiana. E’ un lamento, se possibile ancora più duro e amaro di quanto fece Guccini, sui colleghi e su tutte quelle persone che girano intorno alla musica. Liga si toglie interi sassi dalle scarpe prendendosela con giornalisti, lacché pronti ad idolatrarlo quando lo ritenevano un emarginato minoritario e poi massacrarlo al tempo del successo; ma per lo più con i colleghi che fanno i puri e poi darebbero la madre per un titolo sul giornale. Dichiara il Liga: “Non sono il depositario della purezza, ma mi danno fastidio quelli che si dichiarano puri e poi fanno salti mortali per avere i titoli della stampa”. Ecco: la grandezza di Ligabue sta proprio in questo, i suoi testi, le sue canzoni puoi sempre trasmutarle in qualcosa di personale, così ti ritrovi ad immaginare un tuo amico che parlava di stile, impegno e valori e poi appena ha smesso di essergli utile era già lontano, “la lingua avvicinata ad un altro culo”. Sono gli “astratti furori” di cui parlava Elio Vittorini in uno dei più famosi incipit della letteratura italiana.
Sette minuti di pura angoscia invece per “Quando mi vieni a prendere”: una discesa all’inferno di quel 23 gennaio 2009 quando a Dendermonde in Belgio un uomo entra in un asilo vestito da clown e uccide una donna e due bimbi, ferendone altri 12. L’apertura del brano è data da un carrillon seguito da una musica ipnotica che sembra dilatarsi nelle nebbie allucinogene di un racconto da brivido e tenerezza. Brivido per gli accadimenti che si susseguono, tenerezza perché a raccontare il tutto è un bambino che non sa se si salverà o meno. E’ un pezzo che ti incatena, un concentrato di angoscia che mostra una faccia inedita, buia, sconcertante di Ligabue che ne fa la canzone più commovente della carriera.
A seguito di questi due brani che, ripeto, mi sembrano una spanna sopra gli altri, ci sono poi tutti gli altri di ottima fattura e con tematiche interessanti. In generale “Arrivederci Mostro” è denso e sincero, polemico, liberatorio, sferzante a tratti crudo. Già nel secondo brano “La linea sottile” Ligabue invita a dire da che parte si vuol stare “C’è una linea sottile, fra tacere e subire, da che parte vuoi stare?” e lui indica la sua nel terzo brano “Nel tempo” raccontandoci il suo romanzo di formazione e raccontandoci la sua formazione musicale in “Atto di fede” dove encomia l’altro grande della canzone italiana Francesco De Gregori “ma certi giorni ho visto che c’è niente da capire” per finire con “Il meglio deve ancora venire” lascito di speranza per i propri fans. In questo disco come si può ben intuire ci sono due diversi Ligabue: il cantautore, poeta, fine cesellatore di versi e l’istintivo e spettacolare rock-man, capace di comunicare al di là delle parole. Le due figure sono fortemente autoreferenziali con una incontenibile aspirazione alla purezza, alla coerenza ai sentimenti. Tutto ciò fa sì che il lavoro del Liga questa volta arriva davvero vicino alla perfezione assoluta.

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