Arsenale, Venezia svenduta e griffata

Creato il 13 ottobre 2012 da Albertocapece

Anna Lombroso per il Simplicissimus

E non dite che non sono coerenti. Arsenale deriva dall’arabo daras-sina’ah, casa del lavoro, luogo dell’industriarsi. Nel momento di massimo sviluppo l’Arsenale a Venezia copriva 24 ettari e davanti alla porta monumentale sedevano due leoni maestosi a guardia della città delle navi, dove arrivavano gli alberi del Cadore, le grandi querce, i faggi della foresta al servizio della Serenissima, per diventare galere o navi tonde così solide che potevano trasportare carichi e anche l’armamento per difenderli, archibugi e cannoni. I bastimenti più piccoli, che scendevano lungo i fiumi portando formaggi, pollame, vino – chè le verdure Venezia se le coltivava a sant’Erasmo, alle Vignole, quelle zucchine piccole e saporose, qui carciofi con una punta d’amaro perché nella terra degli orti ci mettevano un po’ di sabbia sapida del mare – quelle le compravano già fatte a Corciula in Dalmazia. Perché gli arsenalotti erano operai di fino, specializzati, carpentieri, falegnami, chimici esperti della composizione alchemica di peci e vernici prodigiose, architetti navali, cordieri che lavoravano per la grandezza della flotta, per estendere commerci e riempire i forzieri della città di ricchezze invidiate da tutta la cristianità, ben pagati e organizzati in perfette catene di montaggio operative giorno e notte estate e inverno, perché da tutto il mondo per anni le potenze volevano i bastimenti dei veneziani, frutto di un prodigioso artigianato e di una imprenditorialità lungimirante ed efficiente.

E non dite che non sono coerenti: a loro il lavoro non interessa, le produzioni entrano in conflitto con la smania di moltiplicare dividendi per una azionariato imbelle, corrotto e corruttore, la competenza e la tradizione sono dei deterrenti che potrebbero dissuadere dalla schiavitù, la bellezza del fare non è gradita a chi preferisce la maligna dell’avere.

Un  emendamento nel decreto sull’agenda digitale e l’innovazione del Ministro Passera inserito all’ultima ora come fanno quei prestigiatori malandrini delle fiere di paese, annulla il passaggio dallo Stato al Comune di Venezia di una grande parte dell’Arsenale Nord (area dei Bacini e delle Tese). Forse qualcuno dormiva, qualcuno stava al cellulare, qualcuno ha preferito non vedere e così per appagare gli interessi delle aziende del Consorzio Venezia Nuova, va affonda il progetto di restituzione dell’Arsenale alla città e quindi al suo legittimo proprietario,: il Comune di Venezia.

Perfino il sindaco Orsoni cui piace proprio tutto, dalla Torre megalomane di Cardin alla barbara conversione in centro commerciale del Fondaco, si è svegliato: “È molto triste”, dice, “ che in questa città ormai gli interessi privati prevalgano su quelli del Comune e della città. Così al Consorzio si concede l’Arsenale e quei fondi per il Mose negati dal Governo, in misura infinitamente inferiore, a noi per la manutenzione della città”.

Meglio tardi che mai, si dirà. Ma le proteste del sindaco (e dei poteri elettivi) suonano tardive e ipocrite: il governo Monti sancisce con un atto non certo inaspettato e piena continuità politica e culturale la consegna non simbolica, la concessione remissiva dell’Arsenale al Consorzio Venezia Nuova per la parte più consistente facendone l’utilizzatore “finale” e  dominante nel silenzio complice di tutti, che d’altra parte la città sembra essere già tutta  oggetto di donazione alla potente cordata e a chiunque voglia usarla come merce, svendendo, comprando e “griffando”, per promuovere il mercantilismo dell’arte, i commerci d’importazione più pacchiani e effimeri, il turismo istantaneo e maleducato   in alternativa allo sviluppo delle attività legata alla conoscenza, dei rapporti, storici e attuali tra la terra e il mare e al restauro di tutti i beni mobili e immobili che, nella città, quel rapporto ricordano, testimoniano e saldano.

Il codicillo al decreto mette il sigillo di proprietà riservata, assoluta e monopolistica del Consorzio Venezia Nuova sull’Arsenale e  significa congelare ogni progetto di recupero dell’area, a beneficio della città.

Joseph Schumpeter aveva in mente la guerra quando parlava della «distruzione creatrice» come caratteristica essenziale del capitalismo, se in fondo  il trentennio post Seconda Guerra Mondiale viene definito “golden age”, se la ricostruzione promuove occupazione, fa circolare denaro, muove domanda e offerta.

Ai  “creativi” capitalisti contemporanei piace la guerra, anche se partecipano del Nobel per la pace, la esportano come fosse democrazia, la muovono entro e fuori dai confini, la minacciano e la praticano contro popoli e cittadini e contro la conoscenza, il lavoro, la cultura, la storia e la bellezza.

Vogliono la guerra e dovremo fare come gli “arsenalotti”, che lavoravano per la grandezza della città-stato, operai e lottatori che si batterono come i leoni fuori dalla grande porta, per la Repubblica di Manin e nella Resistenza.


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